Cerca nel blog

Pagine

domenica 1 agosto 2010

Non di solo cibo vive l'uomo



Non sono solo la qualità, l'originalità e la raffinatezza del cibo che rendono un ristorante o una trattoria degni di essere "segnati in agenda", piacevoli da frequentare e meritevoli di essere suggeriti agli amici. Almeno, per quanto mi riguarda, contano molto anche l'atmosfera che vi si respira, la cordialità di chi ci lavora, i sorrisi e le risate che circondano i tavoli contagiando e includendo chi a quei tavoli si avvicina per proporre, servire, accontentare, ascoltare, scambiare una battuta. E la sensazione di essere come a casa propria. Una casa però serena e accogliente, dove ognuno è libero di essere quello che è, spontaneo, senza finzioni o forzature. Un posto simile è il 7Cotolette, poco lontano da Milano, e precisamente a Remondò, nel pavese. Arrivarci dalla grande città richiede sì un atto di volontà e qualche chilometro da macinare in auto, ma ne vale davvero la pena. Perché il cuore e lo spirito ne guadagnano, oltre che lo stomaco. Aperto da poco più di un anno nei locali di quella che era una tipica trattoria-osteria di paese, come suggerisce il nome è specializzato nelle cotolette - di vario tipo e dimensioni, tutte preparate a regola d'arte - ma non solo: il menu varia ogni settimana, in base a quello che la terra, la stagione e i contadini vicini di casa mettono a disposizione. E quando arriva il pesce fresco, c'è anche quello. Insomma, è un posto antico nei modi e moderno nello stile, vivace senza essere cacofonico, spontaneo e comunque professionale. È una sorta di luogo-non-luogo: chi ne varca la soglia ha la sensazione di essere atterrato su di un altro pianeta, dove l'ambiente - dall'ingresso, alla sale fino ai bagni -  è arredato in modo personale e senza ostentazione: e percepisce subito che questo è un punto di incontro di vari mondi, dove si trovano a proprio agio gli anziani del paese - compresi i frequentatori della ex osteria -, le famiglie con i bambini (c'è anche un menu su misura per i più piccoli), le compagnie di giovani, le coppie, le persone sole. In più, nei mesi estivi il 7Cotolette offre l'impagabile lusso di una corte interna, fresca e silenziosa, corredata da una piccola piscina dove stare a mollo, sguazzare, giocare e schizzare amici e parenti. Oltre a serate all'insegna della musica dal vivo, di vario genere e stile. Se non siete ancora partiti per le vacanze o passate da quelle parti, approfittane ora per provarlo di persona: il 7Cotolette rimane aperto fino al 15 di agosto compreso. Fiorenza

mercoledì 28 luglio 2010

Una Cuccagna per Milano


Sembra un sogno, ma non lo è: una vecchia cascina del '700, poco lontana dal centro di Milano, in zona Porta Romana, sta per rinascere. E non per trasformarsi in un luogo di tendenza e modaiolo, bensì per diventare uno spazio vitale aperto a tutti i cittadini, di ogni età, dai bambini agli anziani. I lavori per recuperare la Cascina Cuccagna, da qualche decennio di proprietà del demanio comunale, sono a buon punto. E se arriveranno i soldi che ancora mancano - poco più di un milione di euro - nelle prime settimane del prossimo mese di gennaio, il Consorzio Cantiere Cuccagna potrà inaugurare ufficialmente i 3500 metri quadri, tra edifici, giardino e corti, di questo bell'edificio d'altri tempi. Che nonostante sia circondato da case e strade della metropoli, conserva intatto il suo fascino antico. Le 66 stanze con 128 finestre che compongono la Cascina saranno un punto di aggregazione per la città, un laboratorio culturale e creativo, un luogo di incontro, di scambio e di crescita. Ovvero, usando un linguaggio più tecnico, un "Centro polifunzionale di iniziativa e partecipazione culturale territoriale". Già adesso stanno affluendo decine di progetti e proposte per corsi, eventi, attività varie, che potrebbero trovare ospitalità nella Cascina. E sono tanti i Contadini Urbani, cioè i sostenitori che versando una somma di 250 euro acquisiscono il diritto di entrare a far parte del Gruppo consultivo permanente del Consorzio della Cascina. Dove ci saranno una trattoria, un bar, una scuola di cucina - con ingrediente stagionali e del territorio -, un'agenzia per il turismo agricolo e ambientale, una bottega a filiera corta, orto, frutteto e serra didattici, laboratori artigianali per il restauro e il riutilizzo, oltre a un piccolo ostello, una sala di lettura, un auditorium, laboratori teatrali. Inoltre, verranno ospitate mostre, rassegne, eventi musicali e teatrali. Detto così, può sembrare un elenco sterile e senz'anima: ma basta andare a vedere di persona - la Cascina resta aperta tutta agosto, dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 19, con bevande e giochi di società - per capire che si tratta davvero di un luogo particolare, bello, concreto e rivoluzionario: perché nasce per condividere, integrare, socializzare e combattere quella solitudine culturale e sociale che sempre più affligge la città. E anche fornire l'occasione per ritrovare i sapori perduti: grazie al Mercato Agricolo che ogni martedì pomeriggio, a partire dalla fine di agosto, torna a occupare il giardino della Cascina. Fiorenza

domenica 25 luglio 2010

Tra la vita e la morte c'è di mezzo la fatica

Strani tempi, quelli che stiamo vivendo. Da una parte, non si perde occasione per sottolineare la sacralità della vita, sempre e a tutti i costi, da quando ancora è in divenire fino a quando è sfatta, logorata dalla malattia e dipendente da fili tecnologici. E dall'altra, la si toglie agli altri e a se stessi, in modo diretto o indiretto, con una facilità sconcertante, e per i più svariati motivi: "amore", "passione" (entrambi rigorosamente tra virgolette, perché chi ama veramente e prova davvero passione, non uccide il soggetto che gli permette di provare sentimenti così intensi, anche se lo ha "perso"), gelosia, rabbia, paura, euforia, disperazione, frustrazione, delirio di onnipotenza, superficialità, incompetenza (vedi la recente tragedia di Duisburg). Insomma, si ammazza, si provoca la morte, ci si ammazza, si augura la morte, non si tiene in conto la morte, la si sfida e la si sottovaluta ecc., con una dimestichezza che cozza in modo strabiliante con la tenacia con cui si predica l'intoccabilità della vita. Che quella occidentale sia una società affetta da schizofrenia, è evidente. Però, la malattia a mio parere sta degenerando con una velocità da capogiro, ed è difficile capire quale cura o trattamento possa davvero risultare efficace, ammesso che si voglia effettivamente tentare un trattamento. Magari un pizzico di presunzione in meno e un po' più di accettazione che vita fa comunque rima con morte, che lo si voglia o no? O forse un'attenzione maggiore rivolta verso il proprio io, le proprie azioni e responsabilità, invece che addossare all'altro e/o alla società stessa anche le proprie fragilità e i propri limiti? E, già che ci siamo, rendersi conto che l'altro è un individuo diverso da sé e libero, e che non tutto si può prevedere, ma che proprio per questo, certe situazioni, manifestazioni, derive, occasioni, raduni ecc. andrebbero meditati, evitati, organizzati in modo differente ecc. Ma tutto ciò richiede umiltà, introspezione, modestia, consapevolezza. Tutte cose che fanno rima con fatica. Fiorenza

domenica 18 luglio 2010

Ghiotte meraviglie d'Abruzzo

Conosco molto poco l'Abruzzo, confesso. Ma più raccolgo informazioni sulle tradizioni e sull'attualità della regione, e più abruzzesi mi capita di incontrare e conoscere, più mi piace questo lembo di terra difficile e autentico. E lo stesso vale per i suoi abitanti, a cominciare dai coraggiosi aquilani. Ultima scoperta è un progetto molto impegnativo e interessante, dal nome Ekk (che in abruzzese vuol dire "eccolo", "l'ho fatto") che vedrà la luce all'inizio del prossimo autunno, e che vuole essere un punto di raccolta e di riferimento per i prodotti più autentici della regione: sta sorgendo a Città Sant'Angelo, in provincia di Pescara, in un'antica cantina restaurata; da un lato ospiterà i piccoli produttori con le loro specialità, e dall'altro i "forestieri" che le potranno conoscere, apprezzare, acquistare. Torneremo a parlarne in modo più particolareggiato quando verrà inaugurato.
Ma è stato proprio in occasione della presentazione in anteprima di Ekk a Milano che sono incappata in due bellissime realtà abruzzesi. La prima è il ristorante Il Capestrano, quasi nascosto in un angolo tranquillo e periferico della città lombarda, in zona via Ripamonti: è un locale molto gradevole e accattivante, con quattro sale, una cantina a vista, un loft che si trasforma in "temporary home" e una bellissima corte interna che può ospitare cene, banchetti e "sagre urbane" di tipico stampo abruzzese. Come del resto è abruzzese il menu del locale, ispirato alle ricette della "nonna", e anche il personaggio che ha reso possibile tutto questo, ovvero l'imprenditore Wladimiro (detto Roberto) Babbo, e tutti coloro che ci lavorano. In questo angolo di Abruzzo trapiantato a Milano, ho potuto prendere parte a una Panarda; ovvero, uno storico e impegnativo rito culinario e conviviale durante il quale vengono servite tra le 50 e le 60 portate. Questa imponente occasione gastronomica ha origini molto antiche, quando nel '500 permetteva ai ricchi di mostrare tutta la loro potenza offrendo un pranzo più che opulento, per festeggiare ad esempio la nascita di un figlio maschio o la sua partenza per militare. Ogni vivanda veniva introdotta da un colpo di cannone (sostituito oggi dal rullo di tamburo), mentre il banditore di mensa annunciava il piatto. E guai a quell'ospite che avesse osato alzarsi da tavola, o ancor peggio abbandonare prima della fine la pantagruelica cena: l'ospite l'avrebbe considerata un'offesa personale, e la sfortuna si sarebbe abbattuta sul fuggitivo; oltretutto, ci pensava un guardiano di mensa a controllare che tutti assaggiassero tutto e stessero al loro posto.
Be', è stata un'esperienza molto singolare partecipare a questo rito, riprodotto per l'occasione in una formula più "light" rispetto alla alla classica ma pur sempre con 60 assaggi. I quali sono stati preparati da vari chef abruzzesi - compreso quello de Il Capestrano - e serviti come da manuale con una precisa sequenza logica e di sapore. Anche perché nell'antichità le donne ne erano escluse: a loro spettava il lavoro in cucina, mentre agli uomini quello di far onore a tutto quel ben di Dio. Fiorenza

venerdì 9 luglio 2010

domenica 4 luglio 2010

Buon cibo e di buone "maniere"


A Milano sono diversi i ristoranti dove si può mangiare del buon pesce. Ma La maniera di Carlo, aperto dall'autunno del 2009 in via Pietro Calvi 2 a Milano, si distingue anche per altri particolari. Innanzitutto, per l'ambiente raccolto, caldo e confortevole, che riesce a essere elegante senza incutere soggezione. E poi, lo staff, che ha un'età media di 22 anni. A cominciare dal giovanissimo proprietario, Francesco Germani, il quale ha scelto di chiamare così il locale in memoria del padre Carlo e di quelle sue "buone maniere" per cui in molti lo apprezzavano. E poi c'è lo chef, Lorenzo Santi: solare, sorridente e premuroso (non disdegna di servire lui stesso le portate, illustrandole una a una) non ha ancora 26 anni, ed è quello che si può chiamare un talento naturale. Infatti, dopo il liceo scientifico, Lorenzo ha deciso di entrare come "runner" al ristorante Gold di Milano, dove grazie alla guida di Giacomo Gallina ha imparato a dare forme concrete alla sua innata predisposizione per la cucina. Tra gli antipasti, il Carpaccio di ricciola su tortino di fragole all'aceto balsamico e guacamole al basilico è un equilibrato mix di sapori e consistenze che difficilmente lascia indifferenti, e lo stesso vale per la Capasanta con fico caramellato al porto, e il Carpaccio di scamponi con ventaglio di pesche bianche, mentuccia, pomodori pachino e citronette al passion fruit. E poi si prosegue sulla stessa linea emozionale e fantasiosa - e anche esteticamente molto gradevole - con i primi piatti, i secondi di carne e di pesce, fino ai dolci, senza scordare pane, focaccia e grissini fatti in casa. Insomma, vale davvero la pena di sedersi a uno dei tavoli - ben distanziati l'uno dall'altro - di questo locale dove ci si sente subito a proprio agio; e dove può capitare di cenare in compagnia di nonne con nipotini, giovani coppie, compagnie numerose ma dai modi discreti. In più, scorrendo il menu si viene a scoprire che riporta specificati i nomi dei principali fornitori di materie prime (dalla Macelleria Cazzamali alla frutta e verdura di Andrea di Terlizzi, dal riso di Cascina Scanna all'olio extravergine dell'associazione Pandolea. E che ogni secondo martedì del mese, una parte dell'incasso serale viene devoluto alla Lilt. Fiorenza

domenica 27 giugno 2010

Il Bel Paese allo specchio

Era da molti anni che non tornavo a Lisbona, e l'ho trovata cambiata, con molti edifici nuovi - alcuni dei quali onestamente imponenti - nelle zone periferiche ma altrettante case abbandonate e un rosario di vetrine di negozi vuoti nelle parti più antiche e vivaci del centro storico. Però, l'impressione di essere in una terra sì straniera ma tutt'altro che estranea, è stata la stessa che mi aveva piacevolmente stupito al mio primo incontro con la capitale portoghese, e più in generale con tutto questo paese del quale qui da noi si sa così poco. Di questo e di molto altro ho avuto l'occasione e la fortuna di poter parlare a con il giovane e sconosciuto commensale che il caso ha voluto si sedesse di fronte a me durante una cena di lavoro. Alternando italiano e inglese, nel corso di un paio di ore abbiamo conversato a ruota libera, scoprendo di condividere identiche visioni in merito alla vita e all'importanza di viaggiare per scoprire se stessi e il mondo, e soprattutto gli stessi timori per la situazione e le sorti dei rispettivi Paesi; la medesima sensazione di fatica che comporta vivere nella realtà attuale, l'identico sconforto per l'evidente carenza di stimoli e ideali, di programmi seri e a lungo termine, di vivacità e onestà intellettuale in molti campi e livelli. Fino al momento in cui il mio interlocutore - nato esattamente lo stesso anno nel quale io mettevo piede per la prima volta sul suolo portoghese - mi ha detto guardandomi negli occhi: "Sai, non riesco proprio a capire come l'Italia possa accettare di avere come premier un uomo così discusso come Berlusconi, e per di più padrone di una larga fetta dei canali di comunicazione". Avrei voluto rispondere con un "Nemmeno io lo so più", oppure mettermi a piangere come una bambina. E invece ho cercato di approfittare dell'occasione che questo gentile e intelligente straniero mi stava offrendo per guardare il mio Paese attraverso uno specchio e dare anche a me, oltre che a lui, una risposta degna della Storia. Ci ho provato, ma francamente non so se ci sono riuscita. Poi, tornata a casa, ho letto su Repubblica L'Amaca di Michele Serra del 25 giugno, a commento dell'eliminazione degli azzurri in Sudafrica. E ho capito che cosa avrei dovuto rispondere: "La mediocrità è la condizione che descrive meglio di altre questo scorcio della nostra vita nazionale, e prima ne prendiamo atto, meglio è". Grazie Michele per l'assist: manderò subito una mail al mio attento e premuroso commensale e gli darò questa ulteriore chiave di lettura per capire la realtà italiana. Ovvero che il nostro sarà anche il Bel Pese, però colonizzato da un popolo mediocre. Fiorenza

martedì 22 giugno 2010

Da Spontini, la pizza è una festa


A Milano, al pizza la trancio fa rima con Spontini: chi ama questa ghiottoneria, è di solito anche un assiduo frequentatore del piccolo, sempre affollatissimo e informale locale - Spontini, appunto - il quale, situato nell'omonima via, si può ben definire storico, dato che risale al 1953. Da allora, quando la pizza veniva preparata solo con il pomodoro ed esclusivamente per il take-away (anche se all'epoca ovviamente non lo si chiamava ancora così), il marchio e il locale hanno fatto "carriera", soprattutto grazie alla guida di Massimo Innocenti, che oramai da 30 anni condivide con i suoi clienti la passione per questa delizia gastronomica tipicamente italiana e alla portata di ogni famiglia. Nel frattempo, la pizza di Spontini si è arricchita della mozzarella (che inevitabilmente "fila" quando ci si accinge a ridurre il trancio in bocconi a misura di bocca!), ma non concede altre varianti; mentre l'emerito locale offre anche la possibilità di sedersi ai semplicissimi tavoli per consumare il proprio spicchio di "paradiso"- normale o abbondante- cotto nel forno a legna. Però chi conosce Spontini sa che non può permettersi di attardarsi al tavolo per chiacchiere, perché finito di mangiare bisogna cedere il posto agli altri avventori che aspettano pazientemente (e con l'acquolina in bocca!) che si liberi qualche posto. Dato che inevitabilemente tutto cambia e si trasforma, anche Spontini ha scelto di clonarsi, aprendo nel 2008 in viale Papiniano, e poche settimane fa in via Maghera al 3. Ma senza variare stile né ricetta. Proprio questo nuovissimo locale - spartano e senza fronzoli, senza però rinunciare alla tecnologia e con ben 140 posti a sedere - ha voluto festeggiare la propria nascita e l'arrivo dell'estate invitando tutta la cittadinanza a una "pizzata" gratuita il 21 giugno, a partire dalle 17. La fila fuori dalla porta si è formata ben prima dell'apertura, ed è terminata solo intorno alle 21,30. È stata sicuramente una bella sfacchinata per l'intera squadra di Spontini, impegnata a impastare, condire, infornare, tagliare, impiattare e servire teglie su teglie di pizza croccante e cotta al punto giusto. Ma che bella festa per tutti i circa 1600 avventori! Tra cui famiglie, persone anziane, mamme con passeggini e carrozzine, giovani,  coppie, gruppi di bambini e ragazzi, uomini d'affari in giacca e cravatta, che per l'intera serata si sono pazientemente messi in coda aspettando che arrivasse il loro turno di poter gustare il loro trancio di questa mitica pizza meneghina. Fiorenza 

domenica 20 giugno 2010

Metti una sera (la cultura) a cena

Quando si è a tavola non si legge! Vero, ma ciò non toglie che non si possa parlare di letture e di libri. È quello che, in modo piuttosto originale, propongono per martedì 29 giugno Marcella Pigni, chef e titolare del ristorante Puro e semplice, in via Felice Casati 7 a Milano, e Andrea Perin, architetto museografo e autore del libro "La fame aguzza l'ingegno", uscito di recente per i tipi di Elèuthera. Insieme, daranno vita a una serata diversa dal solito, durante la quale chi siederà ai tavoli del rilassante locale di Marcella, a pochi passi da Porta Venezia, avrà la possibilità di saperne di più in merito alla "Cucina buona in tempi difficili", e ovviamente anche di assaggiarla. La chef infatti preparerà per la serata alcuni piatti ispirati all'indagine condotta da Andrea, che per realizzare il libro ha indagato i vari modi in cui venivano recuperati gli avanzi durante la Grande Guerra. In carta ci saranno ad esempio i milanesi Mondeghili, gli emiliani Sgrafignoni con sugo di pegno, la toscana Pappa al pomodoro, e ancora il Coniglio alle noci, salsa al limone e frittata senza uova, fino al "gran finale" con il Budino di riso in zuppa di visciole. L'iniziativa coinvolge anche la Libreria Popolare di via Tadino, vicinissima al ristorante, che quella sera prolungherà l'orario di apertura, sia per i partecipanti alla cena sia per il pubblico in generale. Insomma, in momenti dove non è facile avere delle idee, e soprattutto metterle in pratica, questa è senz'altro una interessante occasione per per coniugare cultura e gastronomia. Meglio prenotare! Fiorenza

venerdì 18 giugno 2010

In memoria di un uomo intelligente

Non è detto che un bravo scrittore debba per forza essere anche una persona che vale la pena di ascoltare in "viva voce", soprattutto se gli argomenti sono il mondo, la vita, la politica, il futuro del pianeta e dell'umanità. José Saramago però lo era, grazie probabilmente a quella profonda sensibilità che, abbinata all'intelligenza e all'acutezza, gli permetteva di scrivere libri fitti e spesso ostici o non sempre facili da seguire, ma mai banali. Ho avuto l'occasione di ascoltarlo lo scorso ottobre, durante un incontro pubblico a Milano in occasione della pubblicazione in Italia dei Il Quaderno. Ricordo che tornando a casa dopo quella serata particolarmente intensa, dentro di me lo ringraziavo per avermi fornito una serie di spunti sui quali riflettere, in particolare in merito alla situazione che stiamo vivendo in Italia negli ultimi anni: con poche, misurate parole, era riuscito a sollevare quel velo che molti di noi - io compresa - si sono rassegnati a indossare per poter resistere. Ma tutto questo, Saramago l'ha fatto in modo garbato, senza essere saccente o tranciare giudici, fornendo semplicemente un gancio a chi fosse disposto a prenderlo e  a vedere così la nostra realtà attraverso gli occhi di uno straniero intelligente e attento. Ed ero anche piacevolmente sorpresa e stupita di come un uomo della sua età - è morto oggi a 87 anni - potesse essere non solo tanto lucido ma anche perfettamente al corrente delle belle e delle brutte pieghe del mondo, compreso il momento che sta attraversando appunto la nostra penisola. Grazie ancora, e di cuore, per tutte le emozioni, le immagini, le parole, e, lo ripeto, per quei preziosissimi lampi di pura intelligenza che hai voluto condividere con noi in tutti questi anni. Saremo in molti a sentire la tua mancanza. Fiorenza

mercoledì 12 maggio 2010

Giovani ristoratori tra libreria e orto

Per qualcuno, le guide sono e restano uno strumento indispensabile per orientarsi nel mondo della ristorazione. Altri invece le ritengono viziate, scontate, superate, superflue ecc. Ciò non toglie che il fatto che esistano offra a chi lo desideri una possibilità in più per conoscere, scegliere, assaggiare, approvare e anche criticare, ovviamente. Ben venga dunque quanto presentato questa mattina a Milano, ovvero la Guida JRE 2010. Che giunta alla sua 18esima edizione diventa "maggiorenne" ed è perciò edita da Mondadori e distribuita nelle sue librerie, in modo che chiunque lo desideri possa acquistarla. Per chi ancora non conoscesse questa sigla, JRE sta per Jeunes Restaurateurs d'Europa, associazione che nel Vecchio Continente raggruppa dal 1992 a ora più di 500 giovani chef proprietari del loro locale. I quali per essere ammessi nell'associazione devono condividere e soddisfare i severi requisiti stabiliti dallo statuto. È una bella notizia, a mio parere, perché è giusto dare ai giovani di talento ogni occasione possibile per farsi conoscere, soprattutto in un momento come quello attuale, anche appunto attraverso un "navigatore cartaceo". L'associazione italiana - e quindi anche la guida - comprende 85 chef, da Nord a Sud, sette dei quali sono "nuovi ingressi", tra cui figurano due donne. Emanuele Scarello, chef patron de Agli Amici, a Godia (Ud) e presidente della JRE italiana, ha colto l'occasione per annunciare un'altra iniziativa che merita altrettanto rispetto e attenzione: tutti gli chef dell'associazione si organizzeranno per realizzare entro l'anno un "orto di prossimità", ovvero un luogo fisico dove coltivare almeno parte delle verdure per la propria cucina. Fiorenza  

domenica 9 maggio 2010

Tè e cibo, un matrimonio intrigante

Che preparare e servire il tè sia un arte, a tutti gli effetti, è risaputo. E che noi italiani abbiamo ancora tanto da imparare in questo senso, lo è altrettanto. Bello perciò avere ogni tanto l'occasione di poter non solo assaggiare tè particolari, ma anche di ascoltare qualcuno che nel nostro Paese si occupa con amore e passione di questa bevanda che in altri luoghi della terra gode di molto più rispetto e riconoscimento. A me è successo un paio di giorni fa, nella sala dedicata di HighTech, in centro a Milano, dove Anna Maggia - esperta sommelier del tè e che in quanto tale gira l'Italia per fare cultura e affiancare anche i professionisti della ristorazione - preparava con attenzione quasi maniacale alcune miscele primaverili ed estive di Dammann Frères; nome da noi forse sconosciuto ai più, ma non in Francia, dove questa società ha una lunga storia e tradizione, sia come importatore sia come marchio di qualità legato alle foglie di quella bellissima pianta che è la "madre" del tè. Così, ho colto l'occasione per chiedere alla signora Maggia qualche suggerimento per abbinare al meglio cibo e tè; per dare a mia volta una mano a chi volesse superare la "barriera del suono" che da noi vede questa bevanda servita più che altro insieme alla piccola pasticceria o riservata a quei momenti quando si avverte il desiderio di mandare giù "qualcosa di caldo". La prima cosa che ho imparato in quello scambio di battute è che è opportuno cercare abbinamenti per affinità, e non per contrasto. Così, i tè verdi cinesi e giapponesi vanno bene con il pesce - anche per via del loro aroma salino - mentre un Darjeeling è indicato con i primi piatti, perché aiuta a pulire la bocca. I tè dal sentore più erbaceo invece - e ce ne sono diversi! - sono ottimi con le verdure, sia sotto forma di sformati o come ingrediente di una frittata. Per un brunch? Dipende dalla stagione: d'inverno, sono particolarmente indicate le miscele speziate, nelle quali risaltano ad esempio il pepe e lo zenzero; in primavera e d'estate, si può optare per una tè più leggero e profumato. Anche i formaggi si possono servire con un buon tè, meglio se affumicato (provare per credere!). E con i dolci? Beh, per chi se la sente di uscire dal "seminato", la sommelier consiglia di optare per tè agrumati. E infine, una preziosa indicazione per preparare un perfetto tè freddo: non con l'acqua calda, bensì immergendo la miscela in acqua fredda e lasciandola in infusione per tutta la notte, senza ovviamente aggiungere zucchero. Al mattino dopo, il tè è pronto per essere bevuto così com'è, oppure per diventare una base alternativa per cocktail creativi.  Fiorenza 

mercoledì 5 maggio 2010

Una web community gustosa e solidale


Tra cieli tutt'altro che primaverili, monete ed economie in picchiata, oceani di petrolio alla deriva, vulcani irrequieti che invadono l'aria di ceneri, nonché scandali di vario genere e natura, è davvero difficile in questi giorni trovare qualche "buona" notizia. Ci provo comunque, segnalando un'iniziativa che, a mio modesto parere, mi sembra valida e concreta. È nato Il Circolo del Cibo, un progetto e una web community promossi da Altromercato per dare ulteriore spazio a chef, gastronomi, produttori di materie prime, consumatori e golosi interessati sì ad avere a che fare con il cibo - ognuno per quanto gli compete - però in un'ottica più attenta al sociale e con maggior riguardo verso elementi come tracciabilità, filiera corta, biodiversità, nonché cultura, diritti e piacere. Niente di nuovo, penserà qualcuno. Certamente si tratta di concetti già noti. Quello che c'è però di innovativo è lo strumento - il web - promosso a collettore tra gli addetti ai lavori da una parte, e gli interessati dall'altra. Infatti, il nuovo sito Il Circolo del Cibo si propone come piattaforma aperta per un dialogo e uno scambio tra persone che altrimenti non ne avrebbero l'opportunità concerta: da un lato, elencando tutti quei ristoranti - attualmente circa 30 - che dal nord al sud dell'Italia hanno aderito all'iniziativa e utilizzano nei loro menu - indicandoli chiaramente - anche prodotti provenienti dal commercio equo e solidale (la lista dei locali appare in un'apposita sezione del sito, mentre una vetrofania li segnala a chi ci passasse davanti per vaso); e dall'altro, appassionati e curiosi del mondo gastronomico, gourmet e consumatori sensibili a un concetto così vasto ma altrettanto concreto come "impatto ambientale, sociale e culturale del cibo", che vogliono dialogare, scambiare, imparare con il "resto del mondo" e le sue cucine e tradizioni. Insomma, questo sito virtuale e tutta la cascata di conseguenze che avrà nel concreto vuole essere un supporto e un veicolo per la filosofia del "mangiare solidale", senza per questo snobbare il gusto locale: perché, ad esempio, una pasta fredda preparata con penne di quinoa, o un'insalata di riso Thai rosso con verdure al vapore, o ancora un piatto di pesce in saor con spezie e uvette africane non tolgono niente alla nostra gastronomia. Al contrario, semmai l'arricchiscono. Per chi volesse saperne di più, è appena uscito un piccolo ma utile libro, Il cuoco leggero, di Marinella Correggia ed edito da Altraeconomia, che raccoglie informazioni, suggerimenti e ricette per ridurre la nostra impronta ecologica pur continuando a gustare i piaceri della tavola. La "rivoluzione" - e l'evoluzione - del cibo è forse una delle poche davvero fattibili, e senza bisogno di eserciti: bastano gli individui; i quali, nel loro insieme, formano poi la collettività, e quindi il mondo. Fiorenza

lunedì 3 maggio 2010

Il riscatto del risotto

Sfamano gran parte del mondo, nel senso letterale del termine, e già solo per questo meriterebbero il massimo del rispetto e dell'attenzione. In più, in Italia i chicchi di riso possono vantarsi di essere protagonisti del risotto, preparazione versatile ed eccellente che però ancora stenta a trovare il credito e il rispetto che invece meriterebbe. Anche nella ristorazione, dove non sono pochi gli chef che preferiscono glissare su questo piatto, oppure lo preparano in modo francamente poco entusiasmante. Però, per fortuna non mancano gli esempi che vanno esattamente nella direzione opposta, e che provengono non solo dal nord del Paese, dove il riso è di casa e di "cucina" per tradizione, bensì anche dal centro e dal sud. Lo dimostra ampiamente la nuovissima edizione della Guida Gallo - edita da Giunti - che raggruppa i "101 risotti dei migliori ristoranti del mondo", sia in Italia sia all'estero, oltre a segnalare e premiare il "Risotto dell'anno", scelto da una giuria tra le ricette proposte da giovani chef emergenti. Bello sfogliarla questa "Bibbia" del risotto, e scoprire che il signor piatto prettamente padano è cucinato e servito da big della gastronomia nostrana come l'abruzzese Niko Romito, nel suo Reale di Rivisondoli (Aq), e il campano Alfonso Caputo della Taverna del Capitano di Massalubrense (Na); i quali oltretutto lo amano per davvero il risotto, pur senza rinnegare Sua Maestà la Pasta, della quale per inciso in Italia ogni anno consumiamo in media 28 chili a testa, contro i 5 kg di riso. Ed è confortante notare come su 101 ristoranti segnalati nella guida perché hanno in carta almeno un risotto come si deve, ben 48 si trovino fuori dai confini nazionali, con un + 19  rispetto all'edizione 2009. Per finire, da grande appassionata di risotto quale sono, mi permetto di consigliare un indirizzo sicuro per fare il "pieno" di questa leccornia dalle mille sfaccettature e possibilità: il Cinzia di Vercelli, dove due giovanissimi talenti dei fornelli e freschi di Stella Michelin - Christian e Manuel Costardi - hanno in carta ben 25 diverse versioni di primi piatti con ingrediente principale Sua Altezza il Riso. C'è davvero solo l'imbarazzo della scelta. Fiorenza

giovedì 29 aprile 2010

Il colore giusto della maternità

Tra le tante, sconfortanti notizie che riempivano stamattina le pagine dei giornali, una in particolare continua a frullarmi in testa. Nonostante non sia certo tra le più allarmanti, importanti, coinvolgenti e sconvolgenti. La procura della Cassazione ha espresso parere negativo nei confronti di quelle coppie che chiedono di adottare solo figli di pelle bianca. Di per sé, è una notizia positiva, almeno così sembra. Se non fosse che porta con sé uno strascico di riflessioni inquietanti e di quesiti cui non è facile dare una risposta. Da un lato, vista la società in cui viviamo, è comprensibile che non tutti si sentano in grado di far fronte alle inevitabili difficoltà che comporta diventare mamma e papà di un piccolo così palesemente "diverso" dal cliché omologato. Ma dall'altro, mi chiedo, perché voler allora diventare genitori a tutti i costi? Qual è la molla che spinge due coniugi a stravolgere la propria esistenza, affrontando prima il lungo, faticoso e scomodo iter per poter accogliere in casa un bambino solo al mondo, e poi quello di essere per sempre genitori? Non ho una risposta, né pretendo che qualcuno me la dia. Però, mi rattrista e mi sconforta questa ennesima dimostrazione di quanto sia sempre più contorto e insano il nostro rapporto con la vita, le sue fasi, i suoi limiti - e soprattutto quelli di ognuno di noi; al punto da voler a tutti i costi provare come si sta nel ruolo di mamma e papà, però solo a determinate condizioni. È vero, anche con il concepimento naturale oramai è possibile "scegliere" - in casi estremi e particolari - se accettare o meno la diversità della creatura in divenire. Ciò nonostante, mi sembra meriti più comprensione e attenzione il dilemma e il dramma di una coppia che debba decidere se mettere o meno al mondo un figlio malato o in qualche modo "diversamente normale", rispetto a quello di due persone che sì, vorrebbero tanto crescere una creatura, e va bene anche se non l'hanno materialmente fatta loro, purché sia però almeno dello stesso colore o della medesima razza. Non so, forse è un bene che manifestino questo aut aut fin da subito, piuttosto che non essere poi in grado di accudire, amare ed educare un bambino così "difficile" perché con un altro colore di pelle. Ma non sono per niente sicura che queste persone abbiano le carte in regola per diventare genitori, in generale. Magari, mi viene da pensare, la natura è molto più lungimirante di noi, e quando non permette qualcosa - come ad esempio a un uomo e una donna di avere figli propri - ha le sue buone ragioni per farlo. Che, forse, sarebbe meglio imparare ad accettare e rispettare di più. Per la serenità, la prosperità e l'equilibrio di tutto e tutti. Fiorenza

martedì 27 aprile 2010

Cibo (anche) per l'anima

La prima volta che ho sentito parlare di René Redzepi - o meglio, che l'ho ascoltato parlare, dal palco milanese di Identità Golose - è stato agli inizi del 2007. E mi ha colpito subito, sia per la sua bella faccia pulita da ragazzino, sia per quello che raccontava della sua cucina al Noma di Copenhagen, ma soprattutto l'amore e il rispetto che dichiarava per i prodotti della sua terra, certo meno generosa da quel punto di vista della nostra. Una visita al suo locale danese, qualche mese dopo, ha confermato e fortificato questa prima, ottima impressione: "Il ragazzo ha le idee chiare, farà strada", ricordo che abbiamo commentato i miei colleghi e io in quella occasione. E infatti, di strada ne ha fatta tanta il giovane René, fino a conquistare ieri la prima posizione della classifica dei 50 migliori ristoranti, The S.Pellegrino World’s 50 Best Restaurants 2010. È soltanto una classifica, dirà qualcuno, che valore può avere? Sorvolando sulle polemiche che puntualmente sono spuntate come funghi, sì, è vero che è solo una classifica: una delle tante che affollano e governano la nostra quotidianità, a volte senza che neanche ce ne accorgiamo. Ma che però in fondo rispecchia il parere di 800 esperti di gastronomia e alta ristorazione di tutto il mondo, e quindi qualche riscontro con la realtà dovrà pur averlo, anche volendoci fare a tutti costi la tara del caso. E comunque, dà i brividi - per chi come me si occupa per mestiere proprio di alta ristorazione - leggere quell'elenco e scoprire che molti dei primi 50 classificati li conosco personalmente; perché li ho quanto meno intervistati, quando non addirittura ho chiacchierato, riso e scherzato con loro, oltre ovviamente ad avere gustato ciò che nasce prima nella loro mente e poi nelle loro cucine. Percependo anche quanta fatica, impegno, serietà e professionalità richieda un mestiere come il loro. E che emozione, lasciatemelo sottolineare, poter applaudire Massimo Bottura che con la sua Osteria Francescana è balzato al 6° posto della classifica. E potergli dire "Bravo", e soprattutto "Grazie, Massimo!". Perché  in un momento così poco entusiasmante per la nostra nazione, dà forza e scalda il cuore vedere come non tutte le energie positive, le eccellenze e i talenti di questo Paese debbano per forza emigrare per poter emergere e farsi valere. E grazie anche a Massimiliano e Raffaele Alajmo, Davide Scabin, la famiglia Santini, Paolo Lopriore, tutti tra i primi 50 nomi della classifica: almeno per un giorno, mi avete permesso nuovamente di provare che cosa voglia dire sentirsi orgogliosa della propria terra e dei suoi tesori. Fiorenza 

mercoledì 21 aprile 2010

Lunga vita alla pasta italiana

«Butta la pasta, che ho fame!». È una frase storica che fa parte dell'immaginario di tutti noi. Ma che può essere letta anche in una duplice chiave: perché a tutti sarà capitato, almeno una volta, di buttare in pentola una pasta che poi alla prova della tavola si è rivelata una gran delusione. «L'hai lasciata scuocere», «Colpa del sugo che non era buono», «Ma forse è perché non abbiamo poi tutta questa fame». Tutto può essere, e tutto concorre a "rovinare" un piatto. Ma può anche darsi che si trattasse di una pasta non del tutto all'altezza del suo ruolo, ovvero quello di dare piacere e nutrimento a chi la mangia. È da anni che mi occupo di cibo e di alimentazione, e ancora mi capita di vedere stupore e meraviglia negli occhi di amici e conoscenti quando cerco di riassumere in poche parole in che cosa consiste la differenza tra la pasta industriale e quella artigianale. Per me si tratta di un argomento così noto da rasentare l'ovvietà; e di conseguenza, alla meraviglia di chi mi ascolta segue puntualmente la mia: «Ma come, non lo sapevate?». Attenzione: spaghetti, fusilli, penne & C. dei grandi marchi e numeri sono prodotti di tutto rispetto, ed è un bene che ci siano e che ci sfamino. Non è questo il punto: il fatto è che addentare un pacchero frutto di una lavorazione che ricalca quella antica avvalendosi però della sapienza tecnologica moderna, è un'esperienza diversa. Davvero. Per capire cosa intendo, basta fare questo semplice test, che mi è stato suggerito qualche anno fa da un noto chef milanese, Aimo Moroni, nel corso di un'intervista; e che di fatto è la prassi da seguire per capire... di che pasta è fatta la pasta: fate cuocere la penna, lo spaghetto, il maccherone in acqua bollente ma non salata, scolatelo e poi mangiatelo così, nudo com'è, senza sale e senza condimento, e possibilmente a occhi chiusi. Se sullo schermo della mente vi apparirà l'immagine inconfondibile di un campo di grano in piena maturazione, allora quella pasta tenetevela stretta. E offritela - cotta e condita come più vi piace - a chi vi sta a cuore. Perché farete loro un vero e proprio dono, tanto semplice quanto prezioso. Lo stesso dono che ha fatto a me e ad altri colleghi oggi Cosimo Rummo, vitale e spigliato presidente e amministratore delegato dell'omonimo pastificio beneventano Rummo. Il quale, come "sottottitolo" per l'azienda di famiglia - con il giovane Antonio siamo oramai alla sesta generazione - ha scelto lo slogan "lenta lavorazione". E altrettanto lenta degustazione, mi verrebbe da suggerire ai commensali, dopo aver ascoltato prima le parole e assaggiato poi i fatti firmati Rummo. Perché c'è un mix di passione, caparbietà, tradizione, conoscenza e professionalità dentro quei formati di pasta "Made in Benevento", che il palato non può non percepire e apprezzare. C'è un tesoro solo italiano, ma dagli stessi italiani scarsamente considerato e supportato. E c'è anche un pizzico di poesia e di amore per la propria terra, quella generosa Campania così ingiustamente maltrattata dalla storia e da chi ne tiene le redini, ieri come oggi. Fiorenza

domenica 18 aprile 2010

Piante e fiori in (e per) libertà

Che cosa si prova entrando in una galera? Beh, ovviamente dipende da come e perché ci si mette piede. A me finora è capitato due volte nella vita. La prima, tanti anni fa, è stato a Stoccarda, qualche mese dopo che nel carcere di Stammheim furono trovati morti alcuni terroristi tedeschi fondatori della Raf. All'epoca vivevo in Germania e mi era stato chiesto di accompagnare in veste di traduttrice una delegazione italiana composta da Dario Fo, Dacia Maraini, Carlo Lizzani e Franco Basaglia, arrivati a Soccarda appositamente per un sopralluogo nel supercarcere "maledetto". Di quell'episodio ricordo soprattutto il senso di impotenza nel varcare la soglia dell'edificio enorme, squadrato e grigio, costruito volutamente per incutere timore e rispetto: un luogo tanto gelido quanto lo l'atteggiamento e lo sguardo delle guardie che ci hanno scortato prima, durante e dopo quella visita. E ho ancora ben presente l'irrazionale ma vivida sensazione che magari durante il sopralluogo - autorizzato ma non certo ben visto - qualche cosa di imponderabile avrebbe potuto andare storto al punto da non permettermi più di uscire da quell'enorme loculo per esseri ancora viventi. Del tutto diversa invece l'esperienza che risale a ieri, nel carcere di Bollate, alle porte di Milano. Consiglio vivamente di leggere sul sito del carcere - vedi link qui sopra - quali sono le caratteristiche, i presupposti, le finalità e la progettualità di questa casa di reclusione. E poi anche, se possibile, di metterci piede fisicamente, per capire meglio e sentire sulla propria pelle. Magari come ho fatto io, per visitare la rigogliosa serra, i verdissimi vivai e il ricco roseto a cura della cooperativa Cascina Bollate e soprattutto di alcuni detenuti che dedicano le loro giornate a coltivare, trapiantare, accudire, amare piante e fiori. Passati i controlli di rito e le procedure di sicurezza - cellulari, macchine fotografiche, medicinali, chiavette usb e altro sono banditi; meglio lasciarli a casa o in auto - è come entrare in un vivaio qualunque. O meglio, a me sinceramente è sembrato addirittura più vegeto e vivace di tanti altri che ho visto negli anni. Al punto che quando, alzando per un attimo lo sguardo dalla terra e dalle piante, mi sono resa conto che stavo camminando a fianco di un muro alto, griglio e con tanto di filo spinato come ornamento, ho avuto un momento di smarrimento: perché nel frattempo mi ero dimenticata di essere all'interno di un carcere, accompagnata nella visita sia da Susanna Magistretti, che una paio di anni fa ha avuto l'idea, la forza e il coraggio di dar vita alla cooperativa, sia dai volontari che le danno un mano, sia dai reclusi che partecipano a questa iniziativa botanica. I quali, alla fine del tour durato un paio di ore abbondanti, hanno salutato con un semplice: "Ecco, noi dobbiamo fermarci qui. Grazie della visita", cui è stato davvero difficile rispondere senza essere banali, scontati o impacciati. Per la cronaca, le piante coltivate in libertà tra le mura del carcere sono in vendita sia nel negozio all'interno della stessa casa di reclusione, sia nei vari eventi e fiere cui la cooperativa partecipa, sia nel Giardino del Re, da Cargo, a Milano. Fiorenza

mercoledì 14 aprile 2010

Mosche in trappola

Sentire e vedere il Segretario di Stato della Santa Sede Tarcisio Bertone affermare con sicurezza l'esistenza di evidenze scientifiche a favore del binomio omosessualità-pedofilia, mentre altre invece scagionerebbero il celibato dalla medesima accusa, mi ha fatto la stessa impressione di quando vedo una mosca che continua a cercare di uscire dalla trappola della casa andando a sbattere contro il vetro della finestra. E che nemmeno quando gliela spalanco, la finestra, prende la strada giusta. Come se tutto sommato lo sapesse bene che quello è un vetro, ma una sorta di disperazione le facesse perdere la calma e il buon senso necessari per uscire da una situazione pericolosa per la propria esistenza. Forse anche perché pronunciate in spagnolo, le parole dell'alto prelato suonano così disperate e false nella loro drammaticità e prosopopea da far quasi tenerezza, se non fosse che sono altamente offensive e antistoriche da un lato, e dall'altro nascondono un dramma che riguarda in prima persona molti esseri umani, alcuni dei quali non ancora in grado di difendersi perché troppo piccoli. Basta leggere il bel libro "Viaggio nel silenzio", uscito due anni fa per Chiare Lettere e ora per Tea, ma tragicamente attualissimo, per sentire altre campane e ben diverse da quelle ufficiali, benché provenienti sempre da membri della Chiesa. Lo ha scritto una giornalista palermitana, Vania Lucia Gaito, sulla base di molte testimonianze di preti o ex tali da lei raccolte a seguito della puntata del maggio 2007 di Annozero quando andò in onda il documentario "Sex crimes and Vatican". Il libro è sconvolgente, nel vero senso della parola. Non tanto perché racconta verità tutto sommato non difficili da immaginare e/o credere - e umanamente anche comprensibili, nella loro drammaticità -, quanto per i particolari che emergono dai racconti, il tono delle testimonianze, l'immagine di durezza, annientamento della personalità e crudeltà che permea il percorso educativo nei seminari. E la conseguente tendenza all'omosessualità e ad altri abusi sessuali che ne derivano, accettati e quasi dati per scontati all'interno di quella realtà ecclesiastica che invece all'esterno continua a negare e a buttare addosso alla società laica le stesse colpe. C'è anche un evidente e urgente problema di carenza di vocazione, e quindi di impoverimento umano e numerico dei rappresentanti ufficiali della Chiesa, che forse spinge i suoi capi e portavoce a insistere nel negare un'evidenza così atroce e così poco cristiana. Ci vorrebbe davvero un grande atto di coraggio e lealtà per portarli a spalancare le finestre del Vaticano e liberare le mosche intrappolate. Sempre ammesso che vogliano e siano in grado di tornare a volare nei cieli, quelle povere creature terrorizzate. Di questi tempi, se Gesù Cristo non fosse risorto da pochissimi giorni, è probabile che avrebbe di che si rivoltarsi nella tomba come un dannato. Fiorenza  

martedì 13 aprile 2010

Artigianale a chi?



Per qualcuno, parlare di gelato la mattina presto è come offrire salame piccante per colazione: roba da far accapponare la pelle e chiudere lo stomaco. Mi spiace, ma per me entrambi - il gelato e il piccante, in tutte le sue versioni - sono prelibatezze per tutte le ore. Ecco perché anche stamattina mi sono svegliata pensando e ripensando a un cartello che vedo negli ultimi giorni su un marciapiede che percorro spesso, e che recita tronfio e sicuro di sé "Gelato artigianale". È così grande quell'annunciatore in plastica - con tanto di mega cono della stessa materia finta e colorata - che non si può non vederlo, anche perché se ne sta posizionato nel bel mezzo del marciapiede. Ovviamente, essendo io una estimatrice del prodotto di cui sopra, alla seconda volta che sono quasi inciampata in questo ambasciatore del gusto, non ho potuto fare a meno di dare un'occhiata all'interno del negozio relativo. "Ma come, è un bar qualunque, anzi un'enoteca. Possibile che abbiano il gelato artigianale?", era il dubbio - e la speranza - che mi frullava per la mente. È bastato uno sguardo al misero banco frigo sponsorizzato da un noto marchio di gelato industriale e alla manciata di contenitori tristi e mezzi vuoti per capire che lì dentro di artigianale c'era al massimo il bancone in legno della mescita. Ma come è possibile, mi chiedo, voler spacciare a tutti i costi una cosa per un'altra? Niente da ridire sui coni, stecchi, vaschette ecc. prodotti in serie. Ma perché propagandare un prodotto per un'altro? Per fortuna, ho un buon fiuto per il gelato doc, e spesso mi basta solo guardarlo per capire se fa per me o no: non mi crea nessun problema entrare in una gelateria, dare un'occhiata ai cartellini, ai colori delle creme, all'ambiente in generale, e se non mi convincono andarmene con un "Mi spiace, ma è quello che cercavo". Dopo il pianto, ecco il sorriso: per tutti gli appassionati di coni e coppette da incorniciare - in senso metaforico, visto che il contenuto non lo consente - ecco due indirizzi forse meno noti di altri ma assolutamente da segnare in agenda. A Firenze, Carapina, regno dell'estroso Simone Bonini, che non perde occasione per testare, sperimentare, abbinare e fare cultura intorno al gelato di qualità e con frutta e prodotti di stagione. Da poco, per la gioia dei suoi fan in continuo aumento quasi fossero quelli virtuali della sua pagina di Facebook, Carapina si è clonato, aprendo oltre al negozio e laboratorio di Piazza Oberdan 2/r anche un secondo punto di attrazione, più centrale e a portata di passeggio, in via Lambertesca 18/r, a un tiro di coppetta da Ponte Vecchio. E a Milano, il Gelato Giusto, in via San Gregorio 17, zona Corso Buenos Aires, dove Vittoria e Alessandro - lei con un diploma in pasticceria francese ottenuto a Londra e una sana passione per il cioccolato, lui di professione fotografo con un debole per i primi piani su creme e sorbetti - accanto ai gusti più classici ma "tosti" propongono vere e proprie chicche come il Fior di basilico e il Fior di menta, entrambi preparati con le rispettive foglioline e non con sostanze "facenti le veci di". Per inciso, entrambi questi luoghi di culto di delizie algide non hanno grandi cartelloni "buttadentro"; al contrario, le loro insegne sono quanto di più sobrio e modesto ci sia. Però, una volta che ci siete entrati, fate fatica ad andarvene via. Fiorenza

domenica 11 aprile 2010

Non è un paese per musicisti. Purtroppo


Bene, finalmente una bella notizia: stando a quanto riportava ieri il Corriere della Sera, il neonato liceo musicale avrebbe raccolto molti consensi tra i futuri studenti che in questi giorni si "prenotano" per quello che sarà l'indirizzo dei loro studi dei prossimi anni. Grande entusiasmo, dunque, nei confronti delle sette note, al punto che per poter ottenere un banco in uno di questi licei all'insegna della musica, della sua storia, degli strumenti per produrla e via discorrendo, si renderà necessario l'esame d'ammissione. Certo, le strutture ad hoc sono ancora poche, e questo può spiegare in parte il "tutto esaurito" raggiunto, credo, al di là di ogni aspettativa. Però, è da quando ho letto ieri questa notizia che sono tormentata da un dubbio, una piccola stonatura che rovina il piacere dell'ascolto, giusto per restare in tema. Per piacere e passione, da molti anni coltivo il canto e la musica d'insieme, da semplice dilettante e senza nessuno studio adeguato alle spalle. E nel corso di questa mia "carriera" parallela ho avuto l'occasione e il piacere di incontrare, conoscere e parlare con molti giovani studenti di vari Conservatori italiani. Notando un file-rouge che li accomuna, più o meno tutti, indipendentemente dal talento, dalla bravura e dalle capacità acquisite con l'esercizio: ognuno di loro vive consapevolmente  e obbligatoriamente una sorta di seconda vita, e accanto allo studio - impegnativo e costante - di uno strumento, del canto, della composizione ecc., si dà da fare per imparare anche qualcos'altro. Perché ha bene presente che in Italia con la musica non si campa. Al contrario, negli ultimi anni è sempre più difficile riuscire anche solo a praticarla, a diffonderla, a goderne a livello amatoriale, figuriamoci a quello professionale. Conosco una bravissima e giovane mezzosoprano che, da quando ha completato gli studi al Conservatorio, per sbarcare il lunario ha lavorato come commessa in un negozio di calzature, e ultimamente fa la spola tra l'Italia e un Paese europeo forse meno ricco di patrimonio musicale del nostro ma più sensibile a questo aspetto delle cultura umana; e un altro neodiplomato in composizione che è stato felice di trovare un posto in una catena di negozi di articoli sportivi. Peccato che questo lavoro - per via degli orari e di turni - lo impegni così tanto che la musica sia passata in secondo piano. E qualche anno fa, sono stata diretta da un giovane e capace Maestro, il quale per sbarcare il lunario faceva l'impiegato alle Poste, e per la sera del concerto in un teatro milanese ha dovuto prendere a nolo lo smoking. Certo, non tutti quelli che escono con un diploma dal Conservatorio sono destinati a diventare stelle del firmamento musicale. Però sopravvivere dando lezioni private, come fanno in tanti, è ben triste. Spero tanto di sbagliarmi, ma attualmente non mi sembra davvero che l'Italia sia il palcoscenico più adeguato ad accogliere e applaudire futuri musicisti e coreuti. Né a dare loro le opportunità per vivere di e per le sette note. Fiorenza