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sabato 27 febbraio 2010

Milano centro della moda? Preferisco la periferia

Qui a Milano, questa è l'ennesima "settimana della moda". Che sia un settore - sebbene in crisi profonda - che continua nonostante tutto a dare da vivere a molta gente, è un dato di fatto e un bene. Però, è sempre più evidente il contrasto tra le passerelle e la realtà della città e dei suoi abitanti, ovvero quelli che ci stanno, ci vivono e ci lavorano sempre, e non solo una settimana ogni tanto. Ma non è detto che dal confronto, la città "vera" esca sconfitta o umiliata. Dipende dai punti di vista. Ieri, approfittando del primo tiepido sole, ho vagabondato per le vie della periferia nord est della metropoli, armata di buon umore, occhi spalancati e macchina fotografica. E ho visto una Milano certamente meno glamour di quella che nel frattempo si esibiva del "quadrilatero della moda", ma decisamente più vera, concreta, originale e stupefacente. Lo dimostrano questi due scatti che immortalano altrettanti camioncini dediti a soddisfare il bisogno primario per eccellenza, a Milano come altrove: provvedere a distribuire cibo. Il primo era stracolmo di mazzi di verdissima cima di rapa, il secondo era parcheggiato e in "pausa", ma la scritta che lo contraddistingue è una promessa che parla da sola. E il fiore, che c'entra? È anch'esso un regalo della periferia. Ed è un omaggio personale a un amico, e alla primavera che avanza.  Fiorenza

martedì 23 febbraio 2010

Sì, viaggiare...

Ho comperato "L'arte di viaggiare", di Alain de Botton, e l'ho letto tutto d'un fiato, durante l'estate del 2002, dopo averlo scoperto grazie al suggerimento di una mia amica. Ancora oggi ringrazio lei - e ovviamente anche lui, l'autore- perché attraverso quella lettura lieve e a tratti divertente ho imparato a portare l'attenzione in modo più consapevole sui dettagli, siano essi di oggetti, luoghi, emozioni o persone. E ho scoperto così come un portone, un sasso, un sentimento, un volto siano in realtà microcosmi che vale la pena di esplorare e osservare, al pari di una città, un intero continente o la sua popolazione. Da allora noto particolari e sfumature che prima guardavo ma spesso non vedevo, e soprattutto mi accorgo di quando scatta quello che mi piace definire come "allarme rosso", ovvero l'attimo esatto nel quale quella cosa, quel luogo o quella persona entrano a far parte di me e dei miei "file" di memoria e sentimenti; e che coincide quasi sempre - guarda caso - con la consapevolezza che non solo sto guardando il soggetto in questione, ma lo sto vedendo, e che con ogni probabilità soffrirò e ne sentirò la mancanza quando, come ogni cosa e/o evento, sparirà, finirà o se ne andrà per altre strade. Oggi, su La Repubblica, Irene Bignardi ha intervistato de Botton in merito al suo nuovo libro, "Una settimana all'aeroporto", resoconto di sette giorni passati all'interno del nuovo Terminal 5 di Heathrow, Londra. "Le persone in aeroporto hanno spesso un'aria alienata, zombificata", dice l'autore nel corso dell'intervista. È vero. Io viaggio da sempre e spesso, e ho consumato parecchie paia di scarpe percorrendo su e giù i corridoi immensi e rumorosi, ipercolorati e addobbati, finti e sfiancanti di questi "non luoghi", rappresentazioni di un purgatorio per viaggiatori che dall'inferno attendono di spiccare il volo verso un paradiso, o viceversa. Lo leggerò senz'altro, questo piccolo libro. Però, non posso fare a meno di pensare che è proprio grazie ai suggerimenti del suo autore se ho potuto vivere momenti intensi e indimenticabili negli aeroporti, però in quelli più sgangherati e improbabili della terra; dove le carte di imbarco vengono ancora scritte a mano, in perfetta calligrafia, le valigie pesate su bilance da mercati generali della frutta e verdura e poi portate a grappoli e a mano fin sotto la pancia dell'aereo, o al massimo a bordo di carretti arrugginiti. Spesso sono rimasta ore e ore in "aeroporti" di questo genere, in attesa di scoprire se e quando sarebbe partito il mio volo, e da quale sgangherato "gate" (!) qualcuno ci avrebbe chiamato a voce per l'imbarco. Mescolata a nuvole vocianti e scomposte di uomini, donne e bambini che parlavano lingue incomprensibili e dai toni acuti, che mangiavano, giocavano a carte, sedevano o dormivano per terra (e io con loro) ho provato la serenità che dà la sensazione di essere semplicemente un essere umano vivo, punto e basta, in grado di osservare e di gioire per questo. Di una cosa non ho mai dubitato però in quei frangenti, densi di umana e consolante incertezza: che prima o poi sarei partita, e che all'arrivo a destinazione i miei bagagli li avrei sicuramente trovati. Un omino curvo sotto il peso di un carico di borsoni, scatole e valigie è molto più affidabile di un lettore ottico e di un nastro trasportatore.  Fiorenza

domenica 21 febbraio 2010

Prove tecniche di integrazione

Che via Padova, a Milano, sia una realtà complessa e ingombrante, è fuori discussione. Però, credo valga la pena di focalizzare l'attenzione anche su altri aspetti che hanno a che fare con la presenza di extracomunitari in questo nostro Paese, sempre più stanco e ottuso. Ecco cos'è accaduto a me, ieri mattina poco prima delle 8. Ogni sabato, esco di casa presto per andare a correre. Per per poterlo fare però devo prima percorrere una decina di km in auto, che ieri, ahimè, si rifiuta di mettersi in moto: la batteria! penso subito. E adesso? Il mio meccanico di sabato è chiuso. Chiedo alla portinaia di casa mia se ha i cavi per la "rianimazione" e se ha voglia di darmi una mano a far partire la mia carrozza di lamiera. Li troviamo subito nel bagagliaio della sua auto, ma non riusciamo ad aprirne il cofano. Di nuovo, che fare? In quel momento, arriva il ragazzo indiano che vende formaggi in un negozietto lì vicino: senza bisogno di chiederglielo, si offre di darci una mano a superare quest'altro intoppo, commentando con un sorriso: "Visto che a qualche cosa serviamo anche noi immigrati?". Risolto anche questo scoglio, affianchiamo le due auto, mentre il nostro soccorritore va incontro alla sua giornata di lavoro. Ma come collegare correttamente i cavi senza fare disastri? Nella città ancora sonnacchiosa, dal fondo del marciapiede deserto per fortuna vediamo spuntare un gruppetto di tre ragazzi, chiaramente non italiani. Uno di loro ci nota, si avvicina, si ferma, e ci dedica 20 minuti del suo tempo, con cortesia, senza mostrare presunzione o superiorità da "maschio", fino a quando mi rendo conto che guarda spesso l'orologio: deve andare a lavorare, e per lui si sta facendo tardi. Lo ringrazio, mi faccio spiegare come proseguire nel tentativo di respirazione "bocca a bocca" meccanica, e ci lasciamo con un altro sorriso. Finalmente l'auto riparte, evviva!, e così la posso portare fino dall'elettrauto che ha da poco alzato la saracinesca: è meridionale, nessun dubbio, e lavora in quel buchetto da anni insieme alla moglie e al figlio, io però non sono mai stata sua cliente. Sorridendo, mi dice che mentre io vado a casa a prendere i soldi, lui sistema la faccenda: tempo 5 minuti, e sono di ritorno, e il lavoro è già finito. Pago, ringrazio, sorrido (!) e faccio per uscire dall'officina, quando l'elettrauto mi insegue: "Signora, aspetti ad andare via. Apra il cofano che le faccio vedere che batteria le ho messo. E poi, non le ho ancora dato la ricevuta!". Sorrido, per l'ennesima volta in questa mattina di fine febbraio. E penso che senza queste tre persone (quattro: c'è la portinaia, anche lei del profondo sud nostrano), io, Milano e il mondo intero saremmo ben più poveri e tristi. Fiorenza

venerdì 19 febbraio 2010

Giochi di cioccolato

Non è vero che crescendo si debba per forza diventare seri. O, almeno, si può essere seri mantenendo la voglia di giocare. L'ho verificato una volta di più la scorsa settimana a Bruges, nelle Fiandre (in Belgio) dove ho conosciuto Dominique Persoone, mago del cioccolato, simpatico, estroverso, vitale e geniale, al quale è toccato l'onore di chiudere in maniera spettacolare la giornata di lavori della seconda edizione del congresso di e per chef The Flemish Primitives.
E, soprattutto, durante gli incontri conviviali e nel laboratorio annesso al negozio di Dominique, The Chocolate Line, ho assaggiato le sue creazioni golose, irriverenti, fantasiose e suadenti, come la "perla con ostrica" nella foto in alto. Parlare e ridere con lui, sentirlo raccontare come dal caso, dall'intuizione e dalla voglia di sperimentare e, appunto, di giocare, nascano piccoli tesori di dolcezza ricchi di personalità e inventiva (quali i mini lingotti fondenti con un ripieno di marmellata di frutti rossi, da mordere a occhi chiusi; la semisfera con una ganache al cabernet, vera sorpresa per le papille gustative; il semiserio ma gettonatissimo kit per "sniffare" il cacao; il rossetto di puro cioccolato per dare baci golosi e/o leccarsi le labbra...) è stato un momento di svago e di piacere. Come lo è stato passare un'ora nel suo negozio ad ammirare e adorare i 60 e oltre diversi tipi di cioccolatini che ogni giorno lui e i suoi assistenti sfornano (e vendono), e il via vai incessante di fan e compratori. Da noi, il cioccolato o incute timore o è sinonimo di peccato di gola. Con e da Dominique invece ho imparato come sia semplicemente una straordinaria e versatile materia prima, con la quale si può (e si dovrebbe) convivere in assoluta serenità. Fiorenza