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giovedì 29 aprile 2010

Il colore giusto della maternità

Tra le tante, sconfortanti notizie che riempivano stamattina le pagine dei giornali, una in particolare continua a frullarmi in testa. Nonostante non sia certo tra le più allarmanti, importanti, coinvolgenti e sconvolgenti. La procura della Cassazione ha espresso parere negativo nei confronti di quelle coppie che chiedono di adottare solo figli di pelle bianca. Di per sé, è una notizia positiva, almeno così sembra. Se non fosse che porta con sé uno strascico di riflessioni inquietanti e di quesiti cui non è facile dare una risposta. Da un lato, vista la società in cui viviamo, è comprensibile che non tutti si sentano in grado di far fronte alle inevitabili difficoltà che comporta diventare mamma e papà di un piccolo così palesemente "diverso" dal cliché omologato. Ma dall'altro, mi chiedo, perché voler allora diventare genitori a tutti i costi? Qual è la molla che spinge due coniugi a stravolgere la propria esistenza, affrontando prima il lungo, faticoso e scomodo iter per poter accogliere in casa un bambino solo al mondo, e poi quello di essere per sempre genitori? Non ho una risposta, né pretendo che qualcuno me la dia. Però, mi rattrista e mi sconforta questa ennesima dimostrazione di quanto sia sempre più contorto e insano il nostro rapporto con la vita, le sue fasi, i suoi limiti - e soprattutto quelli di ognuno di noi; al punto da voler a tutti i costi provare come si sta nel ruolo di mamma e papà, però solo a determinate condizioni. È vero, anche con il concepimento naturale oramai è possibile "scegliere" - in casi estremi e particolari - se accettare o meno la diversità della creatura in divenire. Ciò nonostante, mi sembra meriti più comprensione e attenzione il dilemma e il dramma di una coppia che debba decidere se mettere o meno al mondo un figlio malato o in qualche modo "diversamente normale", rispetto a quello di due persone che sì, vorrebbero tanto crescere una creatura, e va bene anche se non l'hanno materialmente fatta loro, purché sia però almeno dello stesso colore o della medesima razza. Non so, forse è un bene che manifestino questo aut aut fin da subito, piuttosto che non essere poi in grado di accudire, amare ed educare un bambino così "difficile" perché con un altro colore di pelle. Ma non sono per niente sicura che queste persone abbiano le carte in regola per diventare genitori, in generale. Magari, mi viene da pensare, la natura è molto più lungimirante di noi, e quando non permette qualcosa - come ad esempio a un uomo e una donna di avere figli propri - ha le sue buone ragioni per farlo. Che, forse, sarebbe meglio imparare ad accettare e rispettare di più. Per la serenità, la prosperità e l'equilibrio di tutto e tutti. Fiorenza

martedì 27 aprile 2010

Cibo (anche) per l'anima

La prima volta che ho sentito parlare di René Redzepi - o meglio, che l'ho ascoltato parlare, dal palco milanese di Identità Golose - è stato agli inizi del 2007. E mi ha colpito subito, sia per la sua bella faccia pulita da ragazzino, sia per quello che raccontava della sua cucina al Noma di Copenhagen, ma soprattutto l'amore e il rispetto che dichiarava per i prodotti della sua terra, certo meno generosa da quel punto di vista della nostra. Una visita al suo locale danese, qualche mese dopo, ha confermato e fortificato questa prima, ottima impressione: "Il ragazzo ha le idee chiare, farà strada", ricordo che abbiamo commentato i miei colleghi e io in quella occasione. E infatti, di strada ne ha fatta tanta il giovane René, fino a conquistare ieri la prima posizione della classifica dei 50 migliori ristoranti, The S.Pellegrino World’s 50 Best Restaurants 2010. È soltanto una classifica, dirà qualcuno, che valore può avere? Sorvolando sulle polemiche che puntualmente sono spuntate come funghi, sì, è vero che è solo una classifica: una delle tante che affollano e governano la nostra quotidianità, a volte senza che neanche ce ne accorgiamo. Ma che però in fondo rispecchia il parere di 800 esperti di gastronomia e alta ristorazione di tutto il mondo, e quindi qualche riscontro con la realtà dovrà pur averlo, anche volendoci fare a tutti costi la tara del caso. E comunque, dà i brividi - per chi come me si occupa per mestiere proprio di alta ristorazione - leggere quell'elenco e scoprire che molti dei primi 50 classificati li conosco personalmente; perché li ho quanto meno intervistati, quando non addirittura ho chiacchierato, riso e scherzato con loro, oltre ovviamente ad avere gustato ciò che nasce prima nella loro mente e poi nelle loro cucine. Percependo anche quanta fatica, impegno, serietà e professionalità richieda un mestiere come il loro. E che emozione, lasciatemelo sottolineare, poter applaudire Massimo Bottura che con la sua Osteria Francescana è balzato al 6° posto della classifica. E potergli dire "Bravo", e soprattutto "Grazie, Massimo!". Perché  in un momento così poco entusiasmante per la nostra nazione, dà forza e scalda il cuore vedere come non tutte le energie positive, le eccellenze e i talenti di questo Paese debbano per forza emigrare per poter emergere e farsi valere. E grazie anche a Massimiliano e Raffaele Alajmo, Davide Scabin, la famiglia Santini, Paolo Lopriore, tutti tra i primi 50 nomi della classifica: almeno per un giorno, mi avete permesso nuovamente di provare che cosa voglia dire sentirsi orgogliosa della propria terra e dei suoi tesori. Fiorenza 

mercoledì 21 aprile 2010

Lunga vita alla pasta italiana

«Butta la pasta, che ho fame!». È una frase storica che fa parte dell'immaginario di tutti noi. Ma che può essere letta anche in una duplice chiave: perché a tutti sarà capitato, almeno una volta, di buttare in pentola una pasta che poi alla prova della tavola si è rivelata una gran delusione. «L'hai lasciata scuocere», «Colpa del sugo che non era buono», «Ma forse è perché non abbiamo poi tutta questa fame». Tutto può essere, e tutto concorre a "rovinare" un piatto. Ma può anche darsi che si trattasse di una pasta non del tutto all'altezza del suo ruolo, ovvero quello di dare piacere e nutrimento a chi la mangia. È da anni che mi occupo di cibo e di alimentazione, e ancora mi capita di vedere stupore e meraviglia negli occhi di amici e conoscenti quando cerco di riassumere in poche parole in che cosa consiste la differenza tra la pasta industriale e quella artigianale. Per me si tratta di un argomento così noto da rasentare l'ovvietà; e di conseguenza, alla meraviglia di chi mi ascolta segue puntualmente la mia: «Ma come, non lo sapevate?». Attenzione: spaghetti, fusilli, penne & C. dei grandi marchi e numeri sono prodotti di tutto rispetto, ed è un bene che ci siano e che ci sfamino. Non è questo il punto: il fatto è che addentare un pacchero frutto di una lavorazione che ricalca quella antica avvalendosi però della sapienza tecnologica moderna, è un'esperienza diversa. Davvero. Per capire cosa intendo, basta fare questo semplice test, che mi è stato suggerito qualche anno fa da un noto chef milanese, Aimo Moroni, nel corso di un'intervista; e che di fatto è la prassi da seguire per capire... di che pasta è fatta la pasta: fate cuocere la penna, lo spaghetto, il maccherone in acqua bollente ma non salata, scolatelo e poi mangiatelo così, nudo com'è, senza sale e senza condimento, e possibilmente a occhi chiusi. Se sullo schermo della mente vi apparirà l'immagine inconfondibile di un campo di grano in piena maturazione, allora quella pasta tenetevela stretta. E offritela - cotta e condita come più vi piace - a chi vi sta a cuore. Perché farete loro un vero e proprio dono, tanto semplice quanto prezioso. Lo stesso dono che ha fatto a me e ad altri colleghi oggi Cosimo Rummo, vitale e spigliato presidente e amministratore delegato dell'omonimo pastificio beneventano Rummo. Il quale, come "sottottitolo" per l'azienda di famiglia - con il giovane Antonio siamo oramai alla sesta generazione - ha scelto lo slogan "lenta lavorazione". E altrettanto lenta degustazione, mi verrebbe da suggerire ai commensali, dopo aver ascoltato prima le parole e assaggiato poi i fatti firmati Rummo. Perché c'è un mix di passione, caparbietà, tradizione, conoscenza e professionalità dentro quei formati di pasta "Made in Benevento", che il palato non può non percepire e apprezzare. C'è un tesoro solo italiano, ma dagli stessi italiani scarsamente considerato e supportato. E c'è anche un pizzico di poesia e di amore per la propria terra, quella generosa Campania così ingiustamente maltrattata dalla storia e da chi ne tiene le redini, ieri come oggi. Fiorenza

domenica 18 aprile 2010

Piante e fiori in (e per) libertà

Che cosa si prova entrando in una galera? Beh, ovviamente dipende da come e perché ci si mette piede. A me finora è capitato due volte nella vita. La prima, tanti anni fa, è stato a Stoccarda, qualche mese dopo che nel carcere di Stammheim furono trovati morti alcuni terroristi tedeschi fondatori della Raf. All'epoca vivevo in Germania e mi era stato chiesto di accompagnare in veste di traduttrice una delegazione italiana composta da Dario Fo, Dacia Maraini, Carlo Lizzani e Franco Basaglia, arrivati a Soccarda appositamente per un sopralluogo nel supercarcere "maledetto". Di quell'episodio ricordo soprattutto il senso di impotenza nel varcare la soglia dell'edificio enorme, squadrato e grigio, costruito volutamente per incutere timore e rispetto: un luogo tanto gelido quanto lo l'atteggiamento e lo sguardo delle guardie che ci hanno scortato prima, durante e dopo quella visita. E ho ancora ben presente l'irrazionale ma vivida sensazione che magari durante il sopralluogo - autorizzato ma non certo ben visto - qualche cosa di imponderabile avrebbe potuto andare storto al punto da non permettermi più di uscire da quell'enorme loculo per esseri ancora viventi. Del tutto diversa invece l'esperienza che risale a ieri, nel carcere di Bollate, alle porte di Milano. Consiglio vivamente di leggere sul sito del carcere - vedi link qui sopra - quali sono le caratteristiche, i presupposti, le finalità e la progettualità di questa casa di reclusione. E poi anche, se possibile, di metterci piede fisicamente, per capire meglio e sentire sulla propria pelle. Magari come ho fatto io, per visitare la rigogliosa serra, i verdissimi vivai e il ricco roseto a cura della cooperativa Cascina Bollate e soprattutto di alcuni detenuti che dedicano le loro giornate a coltivare, trapiantare, accudire, amare piante e fiori. Passati i controlli di rito e le procedure di sicurezza - cellulari, macchine fotografiche, medicinali, chiavette usb e altro sono banditi; meglio lasciarli a casa o in auto - è come entrare in un vivaio qualunque. O meglio, a me sinceramente è sembrato addirittura più vegeto e vivace di tanti altri che ho visto negli anni. Al punto che quando, alzando per un attimo lo sguardo dalla terra e dalle piante, mi sono resa conto che stavo camminando a fianco di un muro alto, griglio e con tanto di filo spinato come ornamento, ho avuto un momento di smarrimento: perché nel frattempo mi ero dimenticata di essere all'interno di un carcere, accompagnata nella visita sia da Susanna Magistretti, che una paio di anni fa ha avuto l'idea, la forza e il coraggio di dar vita alla cooperativa, sia dai volontari che le danno un mano, sia dai reclusi che partecipano a questa iniziativa botanica. I quali, alla fine del tour durato un paio di ore abbondanti, hanno salutato con un semplice: "Ecco, noi dobbiamo fermarci qui. Grazie della visita", cui è stato davvero difficile rispondere senza essere banali, scontati o impacciati. Per la cronaca, le piante coltivate in libertà tra le mura del carcere sono in vendita sia nel negozio all'interno della stessa casa di reclusione, sia nei vari eventi e fiere cui la cooperativa partecipa, sia nel Giardino del Re, da Cargo, a Milano. Fiorenza

mercoledì 14 aprile 2010

Mosche in trappola

Sentire e vedere il Segretario di Stato della Santa Sede Tarcisio Bertone affermare con sicurezza l'esistenza di evidenze scientifiche a favore del binomio omosessualità-pedofilia, mentre altre invece scagionerebbero il celibato dalla medesima accusa, mi ha fatto la stessa impressione di quando vedo una mosca che continua a cercare di uscire dalla trappola della casa andando a sbattere contro il vetro della finestra. E che nemmeno quando gliela spalanco, la finestra, prende la strada giusta. Come se tutto sommato lo sapesse bene che quello è un vetro, ma una sorta di disperazione le facesse perdere la calma e il buon senso necessari per uscire da una situazione pericolosa per la propria esistenza. Forse anche perché pronunciate in spagnolo, le parole dell'alto prelato suonano così disperate e false nella loro drammaticità e prosopopea da far quasi tenerezza, se non fosse che sono altamente offensive e antistoriche da un lato, e dall'altro nascondono un dramma che riguarda in prima persona molti esseri umani, alcuni dei quali non ancora in grado di difendersi perché troppo piccoli. Basta leggere il bel libro "Viaggio nel silenzio", uscito due anni fa per Chiare Lettere e ora per Tea, ma tragicamente attualissimo, per sentire altre campane e ben diverse da quelle ufficiali, benché provenienti sempre da membri della Chiesa. Lo ha scritto una giornalista palermitana, Vania Lucia Gaito, sulla base di molte testimonianze di preti o ex tali da lei raccolte a seguito della puntata del maggio 2007 di Annozero quando andò in onda il documentario "Sex crimes and Vatican". Il libro è sconvolgente, nel vero senso della parola. Non tanto perché racconta verità tutto sommato non difficili da immaginare e/o credere - e umanamente anche comprensibili, nella loro drammaticità -, quanto per i particolari che emergono dai racconti, il tono delle testimonianze, l'immagine di durezza, annientamento della personalità e crudeltà che permea il percorso educativo nei seminari. E la conseguente tendenza all'omosessualità e ad altri abusi sessuali che ne derivano, accettati e quasi dati per scontati all'interno di quella realtà ecclesiastica che invece all'esterno continua a negare e a buttare addosso alla società laica le stesse colpe. C'è anche un evidente e urgente problema di carenza di vocazione, e quindi di impoverimento umano e numerico dei rappresentanti ufficiali della Chiesa, che forse spinge i suoi capi e portavoce a insistere nel negare un'evidenza così atroce e così poco cristiana. Ci vorrebbe davvero un grande atto di coraggio e lealtà per portarli a spalancare le finestre del Vaticano e liberare le mosche intrappolate. Sempre ammesso che vogliano e siano in grado di tornare a volare nei cieli, quelle povere creature terrorizzate. Di questi tempi, se Gesù Cristo non fosse risorto da pochissimi giorni, è probabile che avrebbe di che si rivoltarsi nella tomba come un dannato. Fiorenza  

martedì 13 aprile 2010

Artigianale a chi?



Per qualcuno, parlare di gelato la mattina presto è come offrire salame piccante per colazione: roba da far accapponare la pelle e chiudere lo stomaco. Mi spiace, ma per me entrambi - il gelato e il piccante, in tutte le sue versioni - sono prelibatezze per tutte le ore. Ecco perché anche stamattina mi sono svegliata pensando e ripensando a un cartello che vedo negli ultimi giorni su un marciapiede che percorro spesso, e che recita tronfio e sicuro di sé "Gelato artigianale". È così grande quell'annunciatore in plastica - con tanto di mega cono della stessa materia finta e colorata - che non si può non vederlo, anche perché se ne sta posizionato nel bel mezzo del marciapiede. Ovviamente, essendo io una estimatrice del prodotto di cui sopra, alla seconda volta che sono quasi inciampata in questo ambasciatore del gusto, non ho potuto fare a meno di dare un'occhiata all'interno del negozio relativo. "Ma come, è un bar qualunque, anzi un'enoteca. Possibile che abbiano il gelato artigianale?", era il dubbio - e la speranza - che mi frullava per la mente. È bastato uno sguardo al misero banco frigo sponsorizzato da un noto marchio di gelato industriale e alla manciata di contenitori tristi e mezzi vuoti per capire che lì dentro di artigianale c'era al massimo il bancone in legno della mescita. Ma come è possibile, mi chiedo, voler spacciare a tutti i costi una cosa per un'altra? Niente da ridire sui coni, stecchi, vaschette ecc. prodotti in serie. Ma perché propagandare un prodotto per un'altro? Per fortuna, ho un buon fiuto per il gelato doc, e spesso mi basta solo guardarlo per capire se fa per me o no: non mi crea nessun problema entrare in una gelateria, dare un'occhiata ai cartellini, ai colori delle creme, all'ambiente in generale, e se non mi convincono andarmene con un "Mi spiace, ma è quello che cercavo". Dopo il pianto, ecco il sorriso: per tutti gli appassionati di coni e coppette da incorniciare - in senso metaforico, visto che il contenuto non lo consente - ecco due indirizzi forse meno noti di altri ma assolutamente da segnare in agenda. A Firenze, Carapina, regno dell'estroso Simone Bonini, che non perde occasione per testare, sperimentare, abbinare e fare cultura intorno al gelato di qualità e con frutta e prodotti di stagione. Da poco, per la gioia dei suoi fan in continuo aumento quasi fossero quelli virtuali della sua pagina di Facebook, Carapina si è clonato, aprendo oltre al negozio e laboratorio di Piazza Oberdan 2/r anche un secondo punto di attrazione, più centrale e a portata di passeggio, in via Lambertesca 18/r, a un tiro di coppetta da Ponte Vecchio. E a Milano, il Gelato Giusto, in via San Gregorio 17, zona Corso Buenos Aires, dove Vittoria e Alessandro - lei con un diploma in pasticceria francese ottenuto a Londra e una sana passione per il cioccolato, lui di professione fotografo con un debole per i primi piani su creme e sorbetti - accanto ai gusti più classici ma "tosti" propongono vere e proprie chicche come il Fior di basilico e il Fior di menta, entrambi preparati con le rispettive foglioline e non con sostanze "facenti le veci di". Per inciso, entrambi questi luoghi di culto di delizie algide non hanno grandi cartelloni "buttadentro"; al contrario, le loro insegne sono quanto di più sobrio e modesto ci sia. Però, una volta che ci siete entrati, fate fatica ad andarvene via. Fiorenza

domenica 11 aprile 2010

Non è un paese per musicisti. Purtroppo


Bene, finalmente una bella notizia: stando a quanto riportava ieri il Corriere della Sera, il neonato liceo musicale avrebbe raccolto molti consensi tra i futuri studenti che in questi giorni si "prenotano" per quello che sarà l'indirizzo dei loro studi dei prossimi anni. Grande entusiasmo, dunque, nei confronti delle sette note, al punto che per poter ottenere un banco in uno di questi licei all'insegna della musica, della sua storia, degli strumenti per produrla e via discorrendo, si renderà necessario l'esame d'ammissione. Certo, le strutture ad hoc sono ancora poche, e questo può spiegare in parte il "tutto esaurito" raggiunto, credo, al di là di ogni aspettativa. Però, è da quando ho letto ieri questa notizia che sono tormentata da un dubbio, una piccola stonatura che rovina il piacere dell'ascolto, giusto per restare in tema. Per piacere e passione, da molti anni coltivo il canto e la musica d'insieme, da semplice dilettante e senza nessuno studio adeguato alle spalle. E nel corso di questa mia "carriera" parallela ho avuto l'occasione e il piacere di incontrare, conoscere e parlare con molti giovani studenti di vari Conservatori italiani. Notando un file-rouge che li accomuna, più o meno tutti, indipendentemente dal talento, dalla bravura e dalle capacità acquisite con l'esercizio: ognuno di loro vive consapevolmente  e obbligatoriamente una sorta di seconda vita, e accanto allo studio - impegnativo e costante - di uno strumento, del canto, della composizione ecc., si dà da fare per imparare anche qualcos'altro. Perché ha bene presente che in Italia con la musica non si campa. Al contrario, negli ultimi anni è sempre più difficile riuscire anche solo a praticarla, a diffonderla, a goderne a livello amatoriale, figuriamoci a quello professionale. Conosco una bravissima e giovane mezzosoprano che, da quando ha completato gli studi al Conservatorio, per sbarcare il lunario ha lavorato come commessa in un negozio di calzature, e ultimamente fa la spola tra l'Italia e un Paese europeo forse meno ricco di patrimonio musicale del nostro ma più sensibile a questo aspetto delle cultura umana; e un altro neodiplomato in composizione che è stato felice di trovare un posto in una catena di negozi di articoli sportivi. Peccato che questo lavoro - per via degli orari e di turni - lo impegni così tanto che la musica sia passata in secondo piano. E qualche anno fa, sono stata diretta da un giovane e capace Maestro, il quale per sbarcare il lunario faceva l'impiegato alle Poste, e per la sera del concerto in un teatro milanese ha dovuto prendere a nolo lo smoking. Certo, non tutti quelli che escono con un diploma dal Conservatorio sono destinati a diventare stelle del firmamento musicale. Però sopravvivere dando lezioni private, come fanno in tanti, è ben triste. Spero tanto di sbagliarmi, ma attualmente non mi sembra davvero che l'Italia sia il palcoscenico più adeguato ad accogliere e applaudire futuri musicisti e coreuti. Né a dare loro le opportunità per vivere di e per le sette note. Fiorenza

giovedì 8 aprile 2010

Il crepuscolo dell'Ora Felice

I segnali sono ancora esili, sporadici e fragili, però ci sono. Forse tra qualche tempo potremo archiviare l'epoca del cosiddetto Happy Hour, ovvero quel rito un po' tribale e caciarone che negli ultimi anni ha preso il sopravvento sul più nostrano e modesto (inteso però nel senso positivo del termine) aperitivo. A Milano - città sempre "avanti" anche quando si tratta di fatto di andare indietro - cominciano a prendere piede alcuni locali dove questo conviviale momento che segna il passaggio tra la giornata di lavoro e la serata sta mutando. Chi li frequenta, è perché non vuole vedere e farsi vedere, né avere vista e stomaco invaso da tocchetti di pizza fredda, ciotole di insalata di pasta scotta, sedicenti bocconcini non meglio identificabili ecc., che per mandali giù ci vogliono pinte di cocktail dai colori e dai nomi strambi; bensì più semplicemente perché ha piacere di mangiare un piatto con un paio di fette di salume e/o qualche assaggio di buon formaggio, con un calice di vino o una birra, condividendo un tavolo con uno o più amici; con i quali addirittura poter fare conversazione senza la sleale concorrenza di un diluvio di musica sparata a tutto volume. Ovvio che siamo ancora agli inizi, però personalmente ne conosco già due di posti simili, e li consiglio caldamente a chi è del giro del capoluogo lombardo e vuole prendersi un aperitivo normale, in santa pace e senza spendere un patrimonio: CacioDivino, in via Santa Croce 4 (zona piazza Vetra, quindi cuore di una delle varie "movide" meneghine), vero ricettacolo di formaggi rari e di qualità, e SmartLunch, in via De Amicis 33 (non molto lontano dal primo) con un'ottima selezione di salumi nostrani. In più, udite udite, in entrambi volendo si può poi restare a cena; anche perché l'aperitivo ha le dimensioni consone al nome che porta, e non intende fare le veci - per altro in modo spesso più appesantente che appetitoso - di un pasto vero e proprio. E, altra chicca: ci si può anche andare da soli, e addirittura se si è donna. Senza per questo avere la sensazione che potrebbe provare un extraterrestre, il quale trovandosi per puro caso a sbarcare sul pianeta Terra, proprio a Milano e disgraziatamente sulla soglia di un tempio dell'Happy Hour quando scatta l'ora X, osasse entrare nel locale magari per ordinare, che so, un Crodino con due patatine e qualche oliva: pover'alieno, si sentirebbe guardato proprio come un marziano. Fiorenza

mercoledì 7 aprile 2010

Il dono più grande che ci sia

"Tieni, te la regalo". "Grazie, molto gentile, ma preferisco di no". "No, guarda, insisto", "Davvero, grazie ancora, come se avessi accettato. Però, mi creda, non mi interessa". "Smettila: te la prendi e basta. È così che funziona in questo gioco", "Ma io non ci voglio giocare!". "Mi dispiace caro, ma quello che vuoi o non vuoi tu, non conta molto. Anzi, per niente. Ti tocca, e chiuso". "Ma non so che cosa farmene!" "Ho detto basta. Ti inventerai qualche cosa. Stai attento però: una volta che ce l'hai, sono affari tuoi. Se poi qualcuno te la maltratta, te la rovina, o se peggio ancora te la rovini da solo, ti arrangi. Al massimo, tra qualche anno la potrai sempre regalare a qualcun altro, come sto facendo io adesso con te". "La mia? Così, dopo che l'ho usata?"."Ma no, che cosa hai capito: la tua te la devi tenere fino alla fine del gioco. No, se proprio vuoi ne regali una nuova. Però adesso è ancora presto per pensare a queste cose. Intanto comincia a prenderti la tua, e senza fare tante storie". "Va be', me la dia. Ma se poi mi stanco di giocare? Sappia che non mi sembra giusto non poter scegliere". "Ci risiamo: se ti stanchi, te la tieni comunque. Lo vuoi capire che quello che pensi tu non conta niente? Sai che sei proprio un bel testone! Uno pensa di farti un favore, e questo è il modo di ringraziare". "Ma io non l'ho chiesto, questo favore". "Ah no? E a me credi che qualcuno l'abbia chiesto quando me l'hanno data? Figurarsi! Io però non ho fatto tutte le moine che stai facendo tu. L'ho presa e basta". "E magari ha anche detto grazie". "Sai che non me lo ricordo? È passato così tanto tempo. Però, ora che ci penso, forse no. Ma che domandi mi fai? E sto anche qui darti retta. Sei più tranquillo ora? Possiamo procedere?". "D'accordo, proceda. Però...". "Stop, non voglio sentire altro. Bene, allora. Eccoci qua: fatto! Ce l'hai. E tra qualche mesetto, sarai pronto per entrare a far parte del Grande Gioco anche tu".

Si lasciò andare, rassegnato, dentro una sorta di mare ovattato e tiepido dove era stato risucchiato. Al quale però cominciò ben presto ad abituarsi. Anzi, tutto sommato non era poi così male, lì dentro: si sentiva cullato, poteva persino fare quello che gli andava, dormire e mangiare quanto e quando ne aveva voglia. No, non era poi così brutto quel gioco. Forse, tutto sommato aveva fatto bene ad accettare il dono da quel signore. Un giorno, però, la pacchia finì, improvvisamente e con una serie di scossoni peggio di un terremoto. "Ma che sta succedendo? Perché nessuno mi dice mai niente qui?", pensò, mentre una forza più grande di lui lo trascinava verso il basso, sempre più giù e sempre più lontano da quel piccolo paradiso dove aveva galleggiato sino a quel momento; era un qualcosa di sovrumano che, prendendolo come a pedate, quasi lo schiacciava spingendolo senza nessun riguardo dentro un cunicolo angusto e poco rassicurante.

Poco dopo si ritrovò all'aperto, tutto nudo, infreddolito e in un ambiente metallico, troppo luminoso, finto e pieno di rumori assordanti. Dove per di più si sentiva tremendamente osservato, e non la smettevano più di toccarlo, rigirarlo, soppesarlo. "Tenete giù le mani! Che cosa volete da me? Aiuto! Fatemi tornare indietro! Mi avete preso in giro! Me lo sentivo io che non lo volevo questo regalo. Non piace questo gioco! Ma perché nessuno mi dà retta?". Niente da fare. Per quanto si sgolasse e si dimenasse con tutte le forze, le sue erano come parole urlate al vento. Poi un paio di mani lo afferrarono saldamente, sollevandolo e avvicinandolo a due perfetti sconosciuti: "Benvenuto a questo mondo, caro mio bel bambino. Eccoti qua, finalmente. E questi sono i tuoi genitori. Sono loro, sai, che ti hanno donato la vita. Su, fai un bel sorrisino a mamma e papà. E dì loro grazie, da bravo". Fiorenza

lunedì 5 aprile 2010

Proposta indecente

Il momento è, secondo me, quello giusto per leggere, o rileggere, il "Vangelo secondo Gesù Cristo", capolavoro di José Saramago. Per soffermarsi in particolare su uno dei capitoli finali, quando Gesù incontra finalmente a tu per tu suo padre, ovvero Dio, nel mezzo del lago di Tiberiade avvolto da una densa nebbia. A tu per tu relativamente, perché ben presto al padre e al figlio seduti sulla barca si aggiunge il Diavolo, arrivando a nuoto. In queste memorabili pagine, Gesù chiede conto a Dio del perché di una serie di cose che riguardano la sua missione terrena e la sua morte; e soprattutto vuole sapere perché Dio abbia deciso di farne un martire e quali saranno in futuro le conseguenze di quel sacrificio. Il Signore risponde, anche se all'inizio in modo recalcitrante quando Gesù insiste perché enunci uno a uno gli altri martiri che verranno uccisi - e in che modo - in nome di Gesù e della neonata Chiesa (elenco che occupa più di tre pagine del volume), e spieghi poi che cosa saranno le Crociate e la Santa Inquisizione, quante persone perderanno la vita a causa loro e soprattutto perché dovranno accadere. Ma è il finale dell'incontro a tre che da solo vale tutto il libro: il Diavolo, che in tutto e per tutto è fisicamente molto simile a Dio, scosso dall'immagine dei fiumi di sangue che verranno versati, dalla quantità di sofferenza e di terrore che faranno da corona alla nascita e al diffondersi del potere della Chiesa, fa allora una proposta al Signore, con il quale ha un rapporto da lungo tempo, essendo stato lui una volta Lucifero, uno tra gli angeli più in alto nella gerarchia del cielo. "Giacché tutto quello che ti disubbidisce e ti nega lo attribuisci al male che io sono e che governa il mondo, la mia proposta è questa: accoglimi di nuovo nel Tuo cielo, perdonandomi i mali passati per quelli che in futuro non dovrò commettere, accetta e serba la mia obbedienza, come nei tempi felici quando ero uno dei tuoi angeli preferiti... Se lo farai, se mi concederai adesso quel perdono che in futuro prometterai tanto facilmente a destra e a manca, allora il male finirà qui, oggi, non ci sarà bisogno che Tuo figlio muoia, il Tuo regno non sarà solo questa terra di ebrei, ma il mondo intero, quello conosciuto e quello da scoprire, e più che il mondo, l'universo..." Dio appare come irritato, quasi indispettito dalla demoniaca offerta. Che poi rifiuta, dicendo: "Non ti accetto, non ti perdono, ti voglio come sei e, se possibile, anche peggio di adesso. Perché il bene che io sono non esisterebbe senza il male che sei tu, un bene che dovesse esistere senza di te sarebbe talmente inconcepibile che neppure io riesco a immaginarlo. Insomma, se tu finisci, finisco anch'io... Se il Diavolo non sussiste come Diavolo, Dio non esiste come Dio. La morte dell'uno sarebbe la morte dell'altro". Che dire? Meditate, gente, meditate. Fiorenza