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martedì 1 novembre 2011

Fuga per la sopravvivenza

Il buio si era intrufolato nell’angusta stanza già da un pezzo, e lui ancora non aveva concluso niente. A dire il vero, non ci aveva nemmeno provato sul serio. Che brutta sensazione restare a fissare per ore la parete in cerca di una veloce intuizione, un appiglio di creatività, una briciola di suggestione. Non era la prima volta che gli capitava, però oggi accusava il colpo più del solito. “Sto invecchiando”, pensò, “e forse dovrei lasciar perdere e godermi in pace gli ultimi anni di vita”. Già, ma chi le avrebbe sfamate tutte quelle bocche che circolavano per casa chiedendo cibo, e cibo, e poi ancora cibo? Non aveva alternative, lo sapeva fin troppo bene. Solo che negli ultimi tempi questo dover produrre sempre e a tutti i costi gli pesava come non mai. “Lo so, faccio un mestiere che mi piace. Ma a volte è peggio di un incubo tutto questo dover creare, e creare, sempre e comunque. Che male c’è a limitarsi a pensare, senza per forza ricavarne qualcosa di concreto? In fondo, sono una persona qualunque, io, non certo un genio”. In realtà, era infastidito da tutto e tutti, oggi, compresa questa sua lagna da adolescente oramai canuto che recitava a memoria come un salmo. “E poi, come si fa a lavorare con tutta la cagnara che c’è in questa casa?”, disse a mezza voce, alzandosi bruscamente dalla panchetta per dare sollievo alle spalle incurvate e contratte. “Padre? Scusate, padre…”. La giovane voce si era fatta breccia attraverso la spessa porta chiusa dello studio arrivando diritta alle sue orecchie, infastidite e stanche. Che cosa volevano ancora da lui quelle creature perennemente affamate, si chiese stizzito l’uomo. “Padre, possiamo parlarle solo un momento?”. L’uomo andò alla porta e l’aprì quel tanto che bastava per vedere i suoi figli uno dietro l’altro, una lunga fila impacciata e intimorita che riempiva l'intero corridoio. “Che volete? Non sapete che quando lavoro non voglio essere disturbato?”, rispose con un tono di voce fin troppo irritato. “Su, visto che siete qui parlate, dunque”. “Ecco, padre, vorremmo avere il vostro permesso per andare a casa di Peter, quello che abita due isolati più in là, ricordate? La sua famiglia nutre molta ammirazione per voi e le vostre opere”, rispose insicuro il primo della fila, mentre gli altri dietro di lui se ne stavano lì, impacciati e a occhi bassi. “E a che fare, se posso chiedere?”, tuonò l’uomo, sempre più a disagio. “La famiglia di Peter festeggia il compleanno dei gemellini, e ha avuto la gentilezza di invitare pure noi”, fu la timida spiegazione del portavoce della folta figliolanza. “Tutti voi?”. “Certo, padre, tutti noi. Se voi siete d’accordo, ben inteso”, sussurrò il ragazzo. Be’, così per stasera il problema della cena almeno per loro è risolto, pensò l’uomo, cercando di non dare a vedere il sollievo per quell’imprevisto che giungeva a proposito. “E sia, andate pure, ma comportatevi in modo degno, che io non abbia di che vergognarmi per avervi dato il mio nome. E non fate tardi: vostra madre potrebbe aver bisogno di voi, e io son molto preso dal mio lavoro per poter pensare ad altro”, aggiunse troppo bruscamente per apparire autoritario come avrebbe voluto. “Certo, padre, potete star tranquillo: la nostra sarà solo una toccata e fuga”, lo rassicurò il capofila, improvvisando un veloce inchino, imitato da tutti gli altri pargoli prima di filarsela nel timore potesse cambiare idea. L’uomo rientrò nel suo studio, chiuse la porta e si lascio andare pesantemente sulla vecchia poltrona malandata. “Che vita è mai questa? Gioire quando i propri figli possono sfamarsi a un altro desco!”, sospirò fissando con occhi stanchi e accusatori lo strumento che avrebbe dovuto garantire la sussistenza a tutti loro e che invece lo tradiva sempre più spesso. “Una toccata e fuga, ha detto… quale dei miei figli era? Ah sì, Carl. Promette bene, quel ragazzo. Eh sì, proprio bene…”. Così dicendo si rialzò controvoglia per tornare al posto di lavoro, soffermandosi un secondo ad accarezzare con tocco amorevole la fila di tasti consunti e ingialliti prima di sedersi di fronte a loro. “Toccata e fuga, toccata e fuga… una toccata e fuga... E perché no? Magari in C minor. Chissà che non porti fortuna a quel mio povero figliolo, e possibilmente più di quanto la vita ha riservato a me”, sussurrò, senza riuscire a trattenere una coppia di lacrime che premeva per percorrere la sua guancia rugosa. E finalmente, le mani dell’uomo ritrovarono calore e vita, trasformandosi in pochi attimi in un agile ponte per quel sonoro fiume che, sgorgando direttamente dal suo cuore, tornava ora a inondare la tastiera. E lui avvertì di essere di nuovo se stesso: Johann Sebastian Bach.

giovedì 13 ottobre 2011

Con la testa fra le nuvole



Il vecchio gettò un’ultima occhiata al suo operato che si allontanava dondolando nel niente, e poi si rilassò con un sospiro di sollievo. “Certo che bravo son proprio bravo. Sfido chiunque a creare tutto ciò e in così poco tempo”, pensò, grattandosi con gusto la lunga barba canuta. “E che nessuno mi venga a dire che sono partito avvantaggiato, perché lo fulmino. Qui non è questione di vantaggi né di potere o di santi in paradiso; è che o ci sai fare o altrimenti non combini niente. E io, modestamente, ci so fare. E anche disfare, se mi gira”, aggiunse ad alta voce ridacchiando fra sé e sé. Era decisamente di buon umore quella sera. Stanco, ovviamente, ma più che soddisfatto. Ci aveva lavorato per un po’ di giorni e di buona lena, ma ora che tutto era fatto non gli sembrava di averci messo poi più di tanto. Il giusto, insomma, e finalmente poteva riposarsi. Avercene di momenti come questo, pensò. Anche se, a ben guardare avrebbe potuto essere un po’ più preciso nei dettagli. “Ma quando mai! La stanchezza mi dà alla testa, evidentemente, e straparlo. Figurati se io posso aver dimenticato qualcosa”, borbottò perplesso, mentre un velo di disagio si insinuava nei pensieri oscurando la sicurezza di poco prima. Per scacciarlo non trovò niente di meglio che tornare a rimirare la sua creatura, così sferica e ricamata con ogni sfumatura di marrone, verde e blu. “Quanto sei bella! Per forza, ti ho fatto io. E sei perfetta! Voglio vedere chi osa dire il contrario!”, tuonò stizzito, meravigliandosi per primo del tono imperioso della sua voce baritonale. 
Per scacciare definitivamente il vago malessere che gli stava rovinando la festa decise di andarsene subito a dormire, e non pensarci più. Non fu però una notte tranquilla. Sognò un liquido bluastro e spumoso nel quale galleggiava alla deriva un oggetto enorme dalla curiosa forma triangolare - con tanto di occhi, bocca, orecchie e persino capelli - che lo guardava con stupore misto a malinconia: “Perché ti sei dimenticato di me? Che cosa ti ho fatto di male? Non sono forse degna di essere trattata come tutte le altre?”, si lamentava nel sogno la creatura aliena e al tempo stesso familiare. “Ma che dici? Chi sei? Che vuoi?”, rispose a mezza voce il vecchio, rigirandosi agitato nel letto. Quando venne l’alba, il sogno era ancora lì davanti ai suoi occhi, preciso e tridimensionale come una piramide egizia. “Vuoi vedere che mi son davvero scordato qualche pezzo?”, rifletté nel dormiveglia. “E va bene, vorrà dire che andrò a controllare, anche se oggi è domenica e avevo promesso di non lavorare per nessun motivo”. Senza nemmeno vestirsi, si avviò verso il punto dal quale poteva vedere al meglio la sua opera, quando strada facendo incespicò in qualcosa di appuntito rischiando di finire gambe all’aria. “E questo che cos’è?”, sbottò a voce alta. Ma poiché era solo, nessuno gli rispose. Si chinò su un grosso oggetto triangolare ed ebbe un sussulto: eccolo qua il suo incubo, in carne e ossa. O meglio, in terra, alberi, fiori, ulivi, vigneti, rocce, scogli e spiagge, più un cono altissimo, scuro e fumante nel quale era appunto inciampato. “La Sicilia! Stavo per dimenticarmi della Sicilia!!!”, gridò in preda al panico, raccattando in fretta e furia quel pesantissimo lembo di terra emersa per andarlo a lanciare verso il basso in modo che finisse dove doveva, ovvero sulla punta della penisola che si era divertito a forgiare a forma di stivale. “Oddio che spavento, e che fatica!”, sussurrò senza nemmeno accorgersi di essersi auto-citato e prima di accasciarsi stremato per lo sforzo. Si riaddormentò all’istante. E pochi minuti dopo, l’intero Paradiso risuonava del placido russare del padrone di casa.