Il buio si era intrufolato nell’angusta stanza già da un
pezzo, e lui ancora non aveva concluso niente. A dire il vero, non ci aveva
nemmeno provato sul serio. Che brutta sensazione restare a fissare per ore la
parete in cerca di una veloce intuizione, un appiglio di creatività, una
briciola di suggestione. Non era la prima volta che gli capitava, però oggi accusava
il colpo più del solito. “Sto invecchiando”, pensò, “e forse dovrei lasciar
perdere e godermi in pace gli ultimi anni di vita”. Già, ma chi le avrebbe
sfamate tutte quelle bocche che circolavano per casa chiedendo cibo, e cibo, e
poi ancora cibo? Non aveva alternative, lo sapeva fin troppo bene. Solo che
negli ultimi tempi questo dover produrre sempre e a tutti i costi gli pesava
come non mai. “Lo so, faccio un mestiere che mi piace. Ma a volte è peggio di
un incubo tutto questo dover creare, e creare, sempre e comunque. Che male c’è
a limitarsi a pensare, senza per forza ricavarne qualcosa di concreto? In
fondo, sono una persona qualunque, io, non certo un genio”. In realtà, era
infastidito da tutto e tutti, oggi, compresa questa sua lagna da adolescente
oramai canuto che recitava a memoria come un salmo. “E poi, come si fa a
lavorare con tutta la cagnara che c’è in questa casa?”, disse a mezza voce,
alzandosi bruscamente dalla panchetta per dare sollievo alle spalle incurvate e
contratte. “Padre? Scusate, padre…”. La giovane voce si era fatta breccia
attraverso la spessa porta chiusa dello studio arrivando diritta alle sue
orecchie, infastidite e stanche. Che cosa volevano ancora da lui quelle
creature perennemente affamate, si chiese stizzito l’uomo. “Padre, possiamo
parlarle solo un momento?”. L’uomo andò alla porta e l’aprì quel tanto che
bastava per vedere i suoi figli uno dietro l’altro, una lunga fila impacciata e
intimorita che riempiva l'intero corridoio. “Che volete? Non sapete che quando
lavoro non voglio essere disturbato?”, rispose con un tono di voce fin troppo
irritato. “Su, visto che siete qui parlate, dunque”. “Ecco, padre, vorremmo
avere il vostro permesso per andare a casa di Peter, quello che abita due
isolati più in là, ricordate? La sua famiglia nutre molta ammirazione per voi e
le vostre opere”, rispose insicuro il primo della fila, mentre gli altri dietro
di lui se ne stavano lì, impacciati e a occhi bassi. “E a che fare, se posso
chiedere?”, tuonò l’uomo, sempre più a disagio. “La famiglia di Peter festeggia
il compleanno dei gemellini, e ha avuto la gentilezza di invitare pure noi”, fu
la timida spiegazione del portavoce della folta figliolanza. “Tutti voi?”. “Certo, padre, tutti noi. Se voi siete
d’accordo, ben inteso”, sussurrò il ragazzo. Be’,
così per stasera il problema della cena almeno per loro è risolto, pensò
l’uomo, cercando di non dare a vedere il sollievo per quell’imprevisto che
giungeva a proposito. “E sia, andate pure, ma comportatevi in modo degno, che io
non abbia di che vergognarmi per avervi dato il mio nome. E non fate tardi:
vostra madre potrebbe aver bisogno di voi, e io son molto preso dal mio lavoro per poter pensare ad altro”, aggiunse troppo bruscamente per apparire autoritario
come avrebbe voluto. “Certo, padre, potete star tranquillo: la nostra sarà solo
una toccata e fuga”, lo rassicurò il capofila, improvvisando un veloce inchino,
imitato da tutti gli altri pargoli prima di filarsela nel timore potesse
cambiare idea. L’uomo rientrò nel suo studio, chiuse la porta e
si lascio andare pesantemente sulla vecchia poltrona malandata. “Che vita è mai
questa? Gioire quando i propri figli possono sfamarsi a un altro desco!”,
sospirò fissando con occhi stanchi e accusatori lo strumento che avrebbe dovuto
garantire la sussistenza a tutti loro e che invece lo tradiva sempre più
spesso. “Una toccata e fuga, ha detto… quale dei miei figli era? Ah sì, Carl.
Promette bene, quel ragazzo. Eh sì, proprio bene…”. Così dicendo si rialzò controvoglia per
tornare al posto di lavoro, soffermandosi un secondo ad accarezzare con tocco
amorevole la fila di tasti consunti e ingialliti prima di sedersi di fronte a
loro. “Toccata e fuga, toccata e fuga… una toccata e fuga... E perché no? Magari in
C minor. Chissà che non porti fortuna a quel mio povero figliolo, e possibilmente
più di quanto la vita ha riservato a me”, sussurrò, senza riuscire a
trattenere una coppia di lacrime che premeva per percorrere la sua guancia
rugosa. E finalmente, le mani dell’uomo ritrovarono calore e vita, trasformandosi
in pochi attimi in un agile ponte per quel sonoro fiume che, sgorgando
direttamente dal suo cuore, tornava ora a inondare la tastiera. E lui
avvertì di essere di nuovo se stesso: Johann Sebastian Bach.