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martedì 23 febbraio 2010

Sì, viaggiare...

Ho comperato "L'arte di viaggiare", di Alain de Botton, e l'ho letto tutto d'un fiato, durante l'estate del 2002, dopo averlo scoperto grazie al suggerimento di una mia amica. Ancora oggi ringrazio lei - e ovviamente anche lui, l'autore- perché attraverso quella lettura lieve e a tratti divertente ho imparato a portare l'attenzione in modo più consapevole sui dettagli, siano essi di oggetti, luoghi, emozioni o persone. E ho scoperto così come un portone, un sasso, un sentimento, un volto siano in realtà microcosmi che vale la pena di esplorare e osservare, al pari di una città, un intero continente o la sua popolazione. Da allora noto particolari e sfumature che prima guardavo ma spesso non vedevo, e soprattutto mi accorgo di quando scatta quello che mi piace definire come "allarme rosso", ovvero l'attimo esatto nel quale quella cosa, quel luogo o quella persona entrano a far parte di me e dei miei "file" di memoria e sentimenti; e che coincide quasi sempre - guarda caso - con la consapevolezza che non solo sto guardando il soggetto in questione, ma lo sto vedendo, e che con ogni probabilità soffrirò e ne sentirò la mancanza quando, come ogni cosa e/o evento, sparirà, finirà o se ne andrà per altre strade. Oggi, su La Repubblica, Irene Bignardi ha intervistato de Botton in merito al suo nuovo libro, "Una settimana all'aeroporto", resoconto di sette giorni passati all'interno del nuovo Terminal 5 di Heathrow, Londra. "Le persone in aeroporto hanno spesso un'aria alienata, zombificata", dice l'autore nel corso dell'intervista. È vero. Io viaggio da sempre e spesso, e ho consumato parecchie paia di scarpe percorrendo su e giù i corridoi immensi e rumorosi, ipercolorati e addobbati, finti e sfiancanti di questi "non luoghi", rappresentazioni di un purgatorio per viaggiatori che dall'inferno attendono di spiccare il volo verso un paradiso, o viceversa. Lo leggerò senz'altro, questo piccolo libro. Però, non posso fare a meno di pensare che è proprio grazie ai suggerimenti del suo autore se ho potuto vivere momenti intensi e indimenticabili negli aeroporti, però in quelli più sgangherati e improbabili della terra; dove le carte di imbarco vengono ancora scritte a mano, in perfetta calligrafia, le valigie pesate su bilance da mercati generali della frutta e verdura e poi portate a grappoli e a mano fin sotto la pancia dell'aereo, o al massimo a bordo di carretti arrugginiti. Spesso sono rimasta ore e ore in "aeroporti" di questo genere, in attesa di scoprire se e quando sarebbe partito il mio volo, e da quale sgangherato "gate" (!) qualcuno ci avrebbe chiamato a voce per l'imbarco. Mescolata a nuvole vocianti e scomposte di uomini, donne e bambini che parlavano lingue incomprensibili e dai toni acuti, che mangiavano, giocavano a carte, sedevano o dormivano per terra (e io con loro) ho provato la serenità che dà la sensazione di essere semplicemente un essere umano vivo, punto e basta, in grado di osservare e di gioire per questo. Di una cosa non ho mai dubitato però in quei frangenti, densi di umana e consolante incertezza: che prima o poi sarei partita, e che all'arrivo a destinazione i miei bagagli li avrei sicuramente trovati. Un omino curvo sotto il peso di un carico di borsoni, scatole e valigie è molto più affidabile di un lettore ottico e di un nastro trasportatore.  Fiorenza

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