Tra le tante, sconfortanti notizie che riempivano stamattina le pagine dei giornali, una in particolare continua a frullarmi in testa. Nonostante non sia certo tra le più allarmanti, importanti, coinvolgenti e sconvolgenti. La procura della Cassazione ha espresso parere negativo nei confronti di quelle coppie che chiedono di adottare solo figli di pelle bianca. Di per sé, è una notizia positiva, almeno così sembra. Se non fosse che porta con sé uno strascico di riflessioni inquietanti e di quesiti cui non è facile dare una risposta. Da un lato, vista la società in cui viviamo, è comprensibile che non tutti si sentano in grado di far fronte alle inevitabili difficoltà che comporta diventare mamma e papà di un piccolo così palesemente "diverso" dal cliché omologato. Ma dall'altro, mi chiedo, perché voler allora diventare genitori a tutti i costi? Qual è la molla che spinge due coniugi a stravolgere la propria esistenza, affrontando prima il lungo, faticoso e scomodo iter per poter accogliere in casa un bambino solo al mondo, e poi quello di essere per sempre genitori? Non ho una risposta, né pretendo che qualcuno me la dia. Però, mi rattrista e mi sconforta questa ennesima dimostrazione di quanto sia sempre più contorto e insano il nostro rapporto con la vita, le sue fasi, i suoi limiti - e soprattutto quelli di ognuno di noi; al punto da voler a tutti i costi provare come si sta nel ruolo di mamma e papà, però solo a determinate condizioni. È vero, anche con il concepimento naturale oramai è possibile "scegliere" - in casi estremi e particolari - se accettare o meno la diversità della creatura in divenire. Ciò nonostante, mi sembra meriti più comprensione e attenzione il dilemma e il dramma di una coppia che debba decidere se mettere o meno al mondo un figlio malato o in qualche modo "diversamente normale", rispetto a quello di due persone che sì, vorrebbero tanto crescere una creatura, e va bene anche se non l'hanno materialmente fatta loro, purché sia però almeno dello stesso colore o della medesima razza. Non so, forse è un bene che manifestino questo aut aut fin da subito, piuttosto che non essere poi in grado di accudire, amare ed educare un bambino così "difficile" perché con un altro colore di pelle. Ma non sono per niente sicura che queste persone abbiano le carte in regola per diventare genitori, in generale. Magari, mi viene da pensare, la natura è molto più lungimirante di noi, e quando non permette qualcosa - come ad esempio a un uomo e una donna di avere figli propri - ha le sue buone ragioni per farlo. Che, forse, sarebbe meglio imparare ad accettare e rispettare di più. Per la serenità, la prosperità e l'equilibrio di tutto e tutti. Fiorenza
giovedì 29 aprile 2010
martedì 27 aprile 2010
Cibo (anche) per l'anima
La prima volta che ho sentito parlare di René Redzepi - o meglio, che l'ho ascoltato parlare, dal palco milanese di Identità Golose - è stato agli inizi del 2007. E mi ha colpito subito, sia per la sua bella faccia pulita da ragazzino, sia per quello che raccontava della sua cucina al Noma di Copenhagen, ma soprattutto l'amore e il rispetto che dichiarava per i prodotti della sua terra, certo meno generosa da quel punto di vista della nostra. Una visita al suo locale danese, qualche mese dopo, ha confermato e fortificato questa prima, ottima impressione: "Il ragazzo ha le idee chiare, farà strada", ricordo che abbiamo commentato i miei colleghi e io in quella occasione. E infatti, di strada ne ha fatta tanta il giovane René, fino a conquistare ieri la prima posizione della classifica dei 50 migliori ristoranti, The S.Pellegrino World’s 50 Best Restaurants 2010. È soltanto una classifica, dirà qualcuno, che valore può avere? Sorvolando sulle polemiche che puntualmente sono spuntate come funghi, sì, è vero che è solo una classifica: una delle tante che affollano e governano la nostra quotidianità, a volte senza che neanche ce ne accorgiamo. Ma che però in fondo rispecchia il parere di 800 esperti di gastronomia e alta ristorazione di tutto il mondo, e quindi qualche riscontro con la realtà dovrà pur averlo, anche volendoci fare a tutti costi la tara del caso. E comunque, dà i brividi - per chi come me si occupa per mestiere proprio di alta ristorazione - leggere quell'elenco e scoprire che molti dei primi 50 classificati li conosco personalmente; perché li ho quanto meno intervistati, quando non addirittura ho chiacchierato, riso e scherzato con loro, oltre ovviamente ad avere gustato ciò che nasce prima nella loro mente e poi nelle loro cucine. Percependo anche quanta fatica, impegno, serietà e professionalità richieda un mestiere come il loro. E che emozione, lasciatemelo sottolineare, poter applaudire Massimo Bottura che con la sua Osteria Francescana è balzato al 6° posto della classifica. E potergli dire "Bravo", e soprattutto "Grazie, Massimo!". Perché in un momento così poco entusiasmante per la nostra nazione, dà forza e scalda il cuore vedere come non tutte le energie positive, le eccellenze e i talenti di questo Paese debbano per forza emigrare per poter emergere e farsi valere. E grazie anche a Massimiliano e Raffaele Alajmo, Davide Scabin, la famiglia Santini, Paolo Lopriore, tutti tra i primi 50 nomi della classifica: almeno per un giorno, mi avete permesso nuovamente di provare che cosa voglia dire sentirsi orgogliosa della propria terra e dei suoi tesori. Fiorenza
mercoledì 21 aprile 2010
Lunga vita alla pasta italiana

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domenica 18 aprile 2010
Piante e fiori in (e per) libertà
Che cosa si prova entrando in una galera? Beh, ovviamente dipende da come e perché ci si mette piede. A me finora è capitato due volte nella vita. La prima, tanti anni fa, è stato a Stoccarda, qualche mese dopo che nel carcere di Stammheim furono trovati morti alcuni terroristi tedeschi fondatori della Raf. All'epoca vivevo in Germania e mi era stato chiesto di accompagnare in veste di traduttrice una delegazione italiana composta da Dario Fo, Dacia Maraini, Carlo Lizzani e Franco Basaglia, arrivati a Soccarda appositamente per un sopralluogo nel supercarcere "maledetto". Di quell'episodio ricordo soprattutto il senso di impotenza nel varcare la soglia dell'edificio enorme, squadrato e grigio, costruito volutamente per incutere timore e rispetto: un luogo tanto gelido quanto lo l'atteggiamento e lo sguardo delle guardie che ci hanno scortato prima, durante e dopo quella visita. E ho ancora ben presente l'irrazionale ma vivida sensazione che magari durante il sopralluogo - autorizzato ma non certo ben visto - qualche cosa di imponderabile avrebbe potuto andare storto al punto da non permettermi più di uscire da quell'enorme loculo per esseri ancora viventi. Del tutto diversa invece l'esperienza che risale a ieri, nel carcere di Bollate, alle porte di Milano. Consiglio vivamente di leggere sul sito del carcere - vedi link qui sopra - quali sono le caratteristiche, i presupposti, le finalità e la progettualità di questa casa di reclusione. E poi anche, se possibile, di metterci piede fisicamente, per capire meglio e sentire sulla propria pelle. Magari come ho fatto io, per visitare la rigogliosa serra, i verdissimi vivai e il ricco roseto a cura della cooperativa Cascina Bollate e soprattutto di alcuni detenuti che dedicano le loro giornate a coltivare, trapiantare, accudire, amare piante e fiori. Passati i controlli di rito e le procedure di sicurezza - cellulari, macchine fotografiche, medicinali, chiavette usb e altro sono banditi; meglio lasciarli a casa o in auto - è come entrare in un vivaio qualunque. O meglio, a me sinceramente è sembrato addirittura più vegeto e vivace di tanti altri che ho visto negli anni. Al punto che quando, alzando per un attimo lo sguardo dalla terra e dalle piante, mi sono resa conto che stavo camminando a fianco di un muro alto, griglio e con tanto di filo spinato come ornamento, ho avuto un momento di smarrimento: perché nel frattempo mi ero dimenticata di essere all'interno di un carcere, accompagnata nella visita sia da Susanna Magistretti, che una paio di anni fa ha avuto l'idea, la forza e il coraggio di dar vita alla cooperativa, sia dai volontari che le danno un mano, sia dai reclusi che partecipano a questa iniziativa botanica. I quali, alla fine del tour durato un paio di ore abbondanti, hanno salutato con un semplice: "Ecco, noi dobbiamo fermarci qui. Grazie della visita", cui è stato davvero difficile rispondere senza essere banali, scontati o impacciati. Per la cronaca, le piante coltivate in libertà tra le mura del carcere sono in vendita sia nel negozio all'interno della stessa casa di reclusione, sia nei vari eventi e fiere cui la cooperativa partecipa, sia nel Giardino del Re, da Cargo, a Milano. Fiorenza
mercoledì 14 aprile 2010
Mosche in trappola

martedì 13 aprile 2010
Artigianale a chi?

Per qualcuno, parlare di gelato la mattina presto è come offrire salame piccante per colazione: roba da far accapponare la pelle e chiudere lo stomaco. Mi spiace, ma per me entrambi - il gelato e il piccante, in tutte le sue versioni - sono prelibatezze per tutte le ore. Ecco perché anche stamattina mi sono svegliata pensando e ripensando a un cartello che vedo negli ultimi giorni su un marciapiede che percorro spesso, e che recita tronfio e sicuro di sé "Gelato artigianale". È così grande quell'annunciatore in plastica - con tanto di mega cono della stessa materia finta e colorata - che non si può non vederlo, anche perché se ne sta posizionato nel bel mezzo del marciapiede. Ovviamente, essendo io una estimatrice del prodotto di cui sopra, alla seconda volta che sono quasi inciampata in questo ambasciatore del gusto, non ho potuto fare a meno di dare un'occhiata all'interno del negozio relativo. "Ma come, è un bar qualunque, anzi un'enoteca. Possibile che abbiano il gelato artigianale?", era il dubbio - e la speranza - che mi frullava per la mente. È bastato uno sguardo al misero banco frigo sponsorizzato da un noto marchio di gelato industriale e alla manciata di contenitori tristi e mezzi vuoti per capire che lì dentro di artigianale c'era al massimo il bancone in legno della mescita. Ma come è possibile, mi chiedo, voler spacciare a tutti i costi una cosa per un'altra? Niente da ridire sui coni, stecchi, vaschette ecc. prodotti in serie. Ma perché propagandare un prodotto per un'altro? Per fortuna, ho un buon fiuto per il gelato doc, e spesso mi basta solo guardarlo per capire se fa per me o no: non mi crea nessun problema entrare in una gelateria, dare un'occhiata ai cartellini, ai colori delle creme, all'ambiente in generale, e se non mi convincono andarmene con un "Mi spiace, ma è quello che cercavo". Dopo il pianto, ecco il sorriso: per tutti gli appassionati di coni e coppette da incorniciare - in senso metaforico, visto che il contenuto non lo consente - ecco due indirizzi forse meno noti di altri ma assolutamente da segnare in agenda. A Firenze, Carapina, regno dell'estroso Simone Bonini, che non perde occasione per testare, sperimentare, abbinare e fare cultura intorno al gelato di qualità e con frutta e prodotti di stagione. Da poco, per la gioia dei suoi fan in continuo aumento quasi fossero quelli virtuali della sua pagina di Facebook, Carapina si è clonato, aprendo oltre al negozio e laboratorio di Piazza Oberdan 2/r anche un secondo punto di attrazione, più centrale e a portata di passeggio, in via Lambertesca 18/r, a un tiro di coppetta da Ponte Vecchio. E a Milano, il Gelato Giusto, in via San Gregorio 17, zona Corso Buenos Aires, dove Vittoria e Alessandro - lei con un diploma in pasticceria francese ottenuto a Londra e una sana passione per il cioccolato, lui di professione fotografo con un debole per i primi piani su creme e sorbetti - accanto ai gusti più classici ma "tosti" propongono vere e proprie chicche come il Fior di basilico e il Fior di menta, entrambi preparati con le rispettive foglioline e non con sostanze "facenti le veci di". Per inciso, entrambi questi luoghi di culto di delizie algide non hanno grandi cartelloni "buttadentro"; al contrario, le loro insegne sono quanto di più sobrio e modesto ci sia. Però, una volta che ci siete entrati, fate fatica ad andarvene via. Fiorenza
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domenica 11 aprile 2010
Non è un paese per musicisti. Purtroppo
giovedì 8 aprile 2010
Il crepuscolo dell'Ora Felice
mercoledì 7 aprile 2010
Il dono più grande che ci sia
"Tieni, te la regalo". "Grazie, molto gentile, ma preferisco di no". "No, guarda, insisto", "Davvero, grazie ancora, come se avessi accettato. Però, mi creda, non mi interessa". "Smettila: te la prendi e basta. È così che funziona in questo gioco", "Ma io non ci voglio giocare!". "Mi dispiace caro, ma quello che vuoi o non vuoi tu, non conta molto. Anzi, per niente. Ti tocca, e chiuso". "Ma non so che cosa farmene!" "Ho detto basta. Ti inventerai qualche cosa. Stai attento però: una volta che ce l'hai, sono affari tuoi. Se poi qualcuno te la maltratta, te la rovina, o se peggio ancora te la rovini da solo, ti arrangi. Al massimo, tra qualche anno la potrai sempre regalare a qualcun altro, come sto facendo io adesso con te". "La mia? Così, dopo che l'ho usata?"."Ma no, che cosa hai capito: la tua te la devi tenere fino alla fine del gioco. No, se proprio vuoi ne regali una nuova. Però adesso è ancora presto per pensare a queste cose. Intanto comincia a prenderti la tua, e senza fare tante storie". "Va be', me la dia. Ma se poi mi stanco di giocare? Sappia che non mi sembra giusto non poter scegliere". "Ci risiamo: se ti stanchi, te la tieni comunque. Lo vuoi capire che quello che pensi tu non conta niente? Sai che sei proprio un bel testone! Uno pensa di farti un favore, e questo è il modo di ringraziare". "Ma io non l'ho chiesto, questo favore". "Ah no? E a me credi che qualcuno l'abbia chiesto quando me l'hanno data? Figurarsi! Io però non ho fatto tutte le moine che stai facendo tu. L'ho presa e basta". "E magari ha anche detto grazie". "Sai che non me lo ricordo? È passato così tanto tempo. Però, ora che ci penso, forse no. Ma che domandi mi fai? E sto anche qui darti retta. Sei più tranquillo ora? Possiamo procedere?". "D'accordo, proceda. Però...". "Stop, non voglio sentire altro. Bene, allora. Eccoci qua: fatto! Ce l'hai. E tra qualche mesetto, sarai pronto per entrare a far parte del Grande Gioco anche tu".
Si lasciò andare, rassegnato, dentro una sorta di mare ovattato e tiepido dove era stato risucchiato. Al quale però cominciò ben presto ad abituarsi. Anzi, tutto sommato non era poi così male, lì dentro: si sentiva cullato, poteva persino fare quello che gli andava, dormire e mangiare quanto e quando ne aveva voglia. No, non era poi così brutto quel gioco. Forse, tutto sommato aveva fatto bene ad accettare il dono da quel signore. Un giorno, però, la pacchia finì, improvvisamente e con una serie di scossoni peggio di un terremoto. "Ma che sta succedendo? Perché nessuno mi dice mai niente qui?", pensò, mentre una forza più grande di lui lo trascinava verso il basso, sempre più giù e sempre più lontano da quel piccolo paradiso dove aveva galleggiato sino a quel momento; era un qualcosa di sovrumano che, prendendolo come a pedate, quasi lo schiacciava spingendolo senza nessun riguardo dentro un cunicolo angusto e poco rassicurante.
Poco dopo si ritrovò all'aperto, tutto nudo, infreddolito e in un ambiente metallico, troppo luminoso, finto e pieno di rumori assordanti. Dove per di più si sentiva tremendamente osservato, e non la smettevano più di toccarlo, rigirarlo, soppesarlo. "Tenete giù le mani! Che cosa volete da me? Aiuto! Fatemi tornare indietro! Mi avete preso in giro! Me lo sentivo io che non lo volevo questo regalo. Non piace questo gioco! Ma perché nessuno mi dà retta?". Niente da fare. Per quanto si sgolasse e si dimenasse con tutte le forze, le sue erano come parole urlate al vento. Poi un paio di mani lo afferrarono saldamente, sollevandolo e avvicinandolo a due perfetti sconosciuti: "Benvenuto a questo mondo, caro mio bel bambino. Eccoti qua, finalmente. E questi sono i tuoi genitori. Sono loro, sai, che ti hanno donato la vita. Su, fai un bel sorrisino a mamma e papà. E dì loro grazie, da bravo". Fiorenza
Si lasciò andare, rassegnato, dentro una sorta di mare ovattato e tiepido dove era stato risucchiato. Al quale però cominciò ben presto ad abituarsi. Anzi, tutto sommato non era poi così male, lì dentro: si sentiva cullato, poteva persino fare quello che gli andava, dormire e mangiare quanto e quando ne aveva voglia. No, non era poi così brutto quel gioco. Forse, tutto sommato aveva fatto bene ad accettare il dono da quel signore. Un giorno, però, la pacchia finì, improvvisamente e con una serie di scossoni peggio di un terremoto. "Ma che sta succedendo? Perché nessuno mi dice mai niente qui?", pensò, mentre una forza più grande di lui lo trascinava verso il basso, sempre più giù e sempre più lontano da quel piccolo paradiso dove aveva galleggiato sino a quel momento; era un qualcosa di sovrumano che, prendendolo come a pedate, quasi lo schiacciava spingendolo senza nessun riguardo dentro un cunicolo angusto e poco rassicurante.
Poco dopo si ritrovò all'aperto, tutto nudo, infreddolito e in un ambiente metallico, troppo luminoso, finto e pieno di rumori assordanti. Dove per di più si sentiva tremendamente osservato, e non la smettevano più di toccarlo, rigirarlo, soppesarlo. "Tenete giù le mani! Che cosa volete da me? Aiuto! Fatemi tornare indietro! Mi avete preso in giro! Me lo sentivo io che non lo volevo questo regalo. Non piace questo gioco! Ma perché nessuno mi dà retta?". Niente da fare. Per quanto si sgolasse e si dimenasse con tutte le forze, le sue erano come parole urlate al vento. Poi un paio di mani lo afferrarono saldamente, sollevandolo e avvicinandolo a due perfetti sconosciuti: "Benvenuto a questo mondo, caro mio bel bambino. Eccoti qua, finalmente. E questi sono i tuoi genitori. Sono loro, sai, che ti hanno donato la vita. Su, fai un bel sorrisino a mamma e papà. E dì loro grazie, da bravo". Fiorenza
lunedì 5 aprile 2010
Proposta indecente

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