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mercoledì 21 aprile 2010

Lunga vita alla pasta italiana

«Butta la pasta, che ho fame!». È una frase storica che fa parte dell'immaginario di tutti noi. Ma che può essere letta anche in una duplice chiave: perché a tutti sarà capitato, almeno una volta, di buttare in pentola una pasta che poi alla prova della tavola si è rivelata una gran delusione. «L'hai lasciata scuocere», «Colpa del sugo che non era buono», «Ma forse è perché non abbiamo poi tutta questa fame». Tutto può essere, e tutto concorre a "rovinare" un piatto. Ma può anche darsi che si trattasse di una pasta non del tutto all'altezza del suo ruolo, ovvero quello di dare piacere e nutrimento a chi la mangia. È da anni che mi occupo di cibo e di alimentazione, e ancora mi capita di vedere stupore e meraviglia negli occhi di amici e conoscenti quando cerco di riassumere in poche parole in che cosa consiste la differenza tra la pasta industriale e quella artigianale. Per me si tratta di un argomento così noto da rasentare l'ovvietà; e di conseguenza, alla meraviglia di chi mi ascolta segue puntualmente la mia: «Ma come, non lo sapevate?». Attenzione: spaghetti, fusilli, penne & C. dei grandi marchi e numeri sono prodotti di tutto rispetto, ed è un bene che ci siano e che ci sfamino. Non è questo il punto: il fatto è che addentare un pacchero frutto di una lavorazione che ricalca quella antica avvalendosi però della sapienza tecnologica moderna, è un'esperienza diversa. Davvero. Per capire cosa intendo, basta fare questo semplice test, che mi è stato suggerito qualche anno fa da un noto chef milanese, Aimo Moroni, nel corso di un'intervista; e che di fatto è la prassi da seguire per capire... di che pasta è fatta la pasta: fate cuocere la penna, lo spaghetto, il maccherone in acqua bollente ma non salata, scolatelo e poi mangiatelo così, nudo com'è, senza sale e senza condimento, e possibilmente a occhi chiusi. Se sullo schermo della mente vi apparirà l'immagine inconfondibile di un campo di grano in piena maturazione, allora quella pasta tenetevela stretta. E offritela - cotta e condita come più vi piace - a chi vi sta a cuore. Perché farete loro un vero e proprio dono, tanto semplice quanto prezioso. Lo stesso dono che ha fatto a me e ad altri colleghi oggi Cosimo Rummo, vitale e spigliato presidente e amministratore delegato dell'omonimo pastificio beneventano Rummo. Il quale, come "sottottitolo" per l'azienda di famiglia - con il giovane Antonio siamo oramai alla sesta generazione - ha scelto lo slogan "lenta lavorazione". E altrettanto lenta degustazione, mi verrebbe da suggerire ai commensali, dopo aver ascoltato prima le parole e assaggiato poi i fatti firmati Rummo. Perché c'è un mix di passione, caparbietà, tradizione, conoscenza e professionalità dentro quei formati di pasta "Made in Benevento", che il palato non può non percepire e apprezzare. C'è un tesoro solo italiano, ma dagli stessi italiani scarsamente considerato e supportato. E c'è anche un pizzico di poesia e di amore per la propria terra, quella generosa Campania così ingiustamente maltrattata dalla storia e da chi ne tiene le redini, ieri come oggi. Fiorenza

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