domenica 1 agosto 2010
Non di solo cibo vive l'uomo
mercoledì 28 luglio 2010
Una Cuccagna per Milano
domenica 25 luglio 2010
Tra la vita e la morte c'è di mezzo la fatica
Strani tempi, quelli che stiamo vivendo. Da una parte, non si perde occasione per sottolineare la sacralità della vita, sempre e a tutti i costi, da quando ancora è in divenire fino a quando è sfatta, logorata dalla malattia e dipendente da fili tecnologici. E dall'altra, la si toglie agli altri e a se stessi, in modo diretto o indiretto, con una facilità sconcertante, e per i più svariati motivi: "amore", "passione" (entrambi rigorosamente tra virgolette, perché chi ama veramente e prova davvero passione, non uccide il soggetto che gli permette di provare sentimenti così intensi, anche se lo ha "perso"), gelosia, rabbia, paura, euforia, disperazione, frustrazione, delirio di onnipotenza, superficialità, incompetenza (vedi la recente tragedia di Duisburg). Insomma, si ammazza, si provoca la morte, ci si ammazza, si augura la morte, non si tiene in conto la morte, la si sfida e la si sottovaluta ecc., con una dimestichezza che cozza in modo strabiliante con la tenacia con cui si predica l'intoccabilità della vita. Che quella occidentale sia una società affetta da schizofrenia, è evidente. Però, la malattia a mio parere sta degenerando con una velocità da capogiro, ed è difficile capire quale cura o trattamento possa davvero risultare efficace, ammesso che si voglia effettivamente tentare un trattamento. Magari un pizzico di presunzione in meno e un po' più di accettazione che vita fa comunque rima con morte, che lo si voglia o no? O forse un'attenzione maggiore rivolta verso il proprio io, le proprie azioni e responsabilità, invece che addossare all'altro e/o alla società stessa anche le proprie fragilità e i propri limiti? E, già che ci siamo, rendersi conto che l'altro è un individuo diverso da sé e libero, e che non tutto si può prevedere, ma che proprio per questo, certe situazioni, manifestazioni, derive, occasioni, raduni ecc. andrebbero meditati, evitati, organizzati in modo differente ecc. Ma tutto ciò richiede umiltà, introspezione, modestia, consapevolezza. Tutte cose che fanno rima con fatica. Fiorenza
domenica 18 luglio 2010
Ghiotte meraviglie d'Abruzzo

Ma è stato proprio in occasione della presentazione in anteprima di Ekk a Milano che sono incappata in due bellissime realtà abruzzesi. La prima è il ristorante Il Capestrano, quasi nascosto in un angolo tranquillo e periferico della città lombarda, in zona via Ripamonti: è un locale molto gradevole e accattivante, con quattro sale, una cantina a vista, un loft che si trasforma in "temporary home" e una bellissima corte interna che può ospitare cene, banchetti e "sagre urbane" di tipico stampo abruzzese. Come del resto è abruzzese il menu del locale, ispirato alle ricette della "nonna", e anche il personaggio che ha reso possibile tutto questo, ovvero l'imprenditore Wladimiro (detto Roberto) Babbo, e tutti coloro che ci lavorano. In questo angolo di Abruzzo trapiantato a Milano, ho potuto prendere parte a una Panarda; ovvero, uno storico e impegnativo rito culinario e conviviale durante il quale vengono servite tra le 50 e le 60 portate. Questa imponente occasione gastronomica ha origini molto antiche, quando nel '500 permetteva ai ricchi di mostrare tutta la loro potenza offrendo un pranzo più che opulento, per festeggiare ad esempio la nascita di un figlio maschio o la sua partenza per militare. Ogni vivanda veniva introdotta da un colpo di cannone (sostituito oggi dal rullo di tamburo), mentre il banditore di mensa annunciava il piatto. E guai a quell'ospite che avesse osato alzarsi da tavola, o ancor peggio abbandonare prima della fine la pantagruelica cena: l'ospite l'avrebbe considerata un'offesa personale, e la sfortuna si sarebbe abbattuta sul fuggitivo; oltretutto, ci pensava un guardiano di mensa a controllare che tutti assaggiassero tutto e stessero al loro posto.
Be', è stata un'esperienza molto singolare partecipare a questo rito, riprodotto per l'occasione in una formula più "light" rispetto alla alla classica ma pur sempre con 60 assaggi. I quali sono stati preparati da vari chef abruzzesi - compreso quello de Il Capestrano - e serviti come da manuale con una precisa sequenza logica e di sapore. Anche perché nell'antichità le donne ne erano escluse: a loro spettava il lavoro in cucina, mentre agli uomini quello di far onore a tutto quel ben di Dio. Fiorenza
venerdì 9 luglio 2010
domenica 4 luglio 2010
Buon cibo e di buone "maniere"
domenica 27 giugno 2010
Il Bel Paese allo specchio
Era da molti anni che non tornavo a Lisbona, e l'ho trovata cambiata, con molti edifici nuovi - alcuni dei quali onestamente imponenti - nelle zone periferiche ma altrettante case abbandonate e un rosario di vetrine di negozi vuoti nelle parti più antiche e vivaci del centro storico. Però, l'impressione di essere in una terra sì straniera ma tutt'altro che estranea, è stata la stessa che mi aveva piacevolmente stupito al mio primo incontro con la capitale portoghese, e più in generale con tutto questo paese del quale qui da noi si sa così poco. Di questo e di molto altro ho avuto l'occasione e la fortuna di poter parlare a con il giovane e sconosciuto commensale che il caso ha voluto si sedesse di fronte a me durante una cena di lavoro. Alternando italiano e inglese, nel corso di un paio di ore abbiamo conversato a ruota libera, scoprendo di condividere identiche visioni in merito alla vita e all'importanza di viaggiare per scoprire se stessi e il mondo, e soprattutto gli stessi timori per la situazione e le sorti dei rispettivi Paesi; la medesima sensazione di fatica che comporta vivere nella realtà attuale, l'identico sconforto per l'evidente carenza di stimoli e ideali, di programmi seri e a lungo termine, di vivacità e onestà intellettuale in molti campi e livelli. Fino al momento in cui il mio interlocutore - nato esattamente lo stesso anno nel quale io mettevo piede per la prima volta sul suolo portoghese - mi ha detto guardandomi negli occhi: "Sai, non riesco proprio a capire come l'Italia possa accettare di avere come premier un uomo così discusso come Berlusconi, e per di più padrone di una larga fetta dei canali di comunicazione". Avrei voluto rispondere con un "Nemmeno io lo so più", oppure mettermi a piangere come una bambina. E invece ho cercato di approfittare dell'occasione che questo gentile e intelligente straniero mi stava offrendo per guardare il mio Paese attraverso uno specchio e dare anche a me, oltre che a lui, una risposta degna della Storia. Ci ho provato, ma francamente non so se ci sono riuscita. Poi, tornata a casa, ho letto su Repubblica L'Amaca di Michele Serra del 25 giugno, a commento dell'eliminazione degli azzurri in Sudafrica. E ho capito che cosa avrei dovuto rispondere: "La mediocrità è la condizione che descrive meglio di altre questo scorcio della nostra vita nazionale, e prima ne prendiamo atto, meglio è". Grazie Michele per l'assist: manderò subito una mail al mio attento e premuroso commensale e gli darò questa ulteriore chiave di lettura per capire la realtà italiana. Ovvero che il nostro sarà anche il Bel Pese, però colonizzato da un popolo mediocre. Fiorenza
martedì 22 giugno 2010
Da Spontini, la pizza è una festa
domenica 20 giugno 2010
Metti una sera (la cultura) a cena

venerdì 18 giugno 2010
In memoria di un uomo intelligente
Non è detto che un bravo scrittore debba per forza essere anche una persona che vale la pena di ascoltare in "viva voce", soprattutto se gli argomenti sono il mondo, la vita, la politica, il futuro del pianeta e dell'umanità. José Saramago però lo era, grazie probabilmente a quella profonda sensibilità che, abbinata all'intelligenza e all'acutezza, gli permetteva di scrivere libri fitti e spesso ostici o non sempre facili da seguire, ma mai banali. Ho avuto l'occasione di ascoltarlo lo scorso ottobre, durante un incontro pubblico a Milano in occasione della pubblicazione in Italia dei Il Quaderno. Ricordo che tornando a casa dopo quella serata particolarmente intensa, dentro di me lo ringraziavo per avermi fornito una serie di spunti sui quali riflettere, in particolare in merito alla situazione che stiamo vivendo in Italia negli ultimi anni: con poche, misurate parole, era riuscito a sollevare quel velo che molti di noi - io compresa - si sono rassegnati a indossare per poter resistere. Ma tutto questo, Saramago l'ha fatto in modo garbato, senza essere saccente o tranciare giudici, fornendo semplicemente un gancio a chi fosse disposto a prenderlo e a vedere così la nostra realtà attraverso gli occhi di uno straniero intelligente e attento. Ed ero anche piacevolmente sorpresa e stupita di come un uomo della sua età - è morto oggi a 87 anni - potesse essere non solo tanto lucido ma anche perfettamente al corrente delle belle e delle brutte pieghe del mondo, compreso il momento che sta attraversando appunto la nostra penisola. Grazie ancora, e di cuore, per tutte le emozioni, le immagini, le parole, e, lo ripeto, per quei preziosissimi lampi di pura intelligenza che hai voluto condividere con noi in tutti questi anni. Saremo in molti a sentire la tua mancanza. Fiorenza
mercoledì 12 maggio 2010
Giovani ristoratori tra libreria e orto

domenica 9 maggio 2010
Tè e cibo, un matrimonio intrigante
mercoledì 5 maggio 2010
Una web community gustosa e solidale
Tra cieli tutt'altro che primaverili, monete ed economie in picchiata, oceani di petrolio alla deriva, vulcani irrequieti che invadono l'aria di ceneri, nonché scandali di vario genere e natura, è davvero difficile in questi giorni trovare qualche "buona" notizia. Ci provo comunque, segnalando un'iniziativa che, a mio modesto parere, mi sembra valida e concreta. È nato Il Circolo del Cibo, un progetto e una web community promossi da Altromercato per dare ulteriore spazio a chef, gastronomi, produttori di materie prime, consumatori e golosi interessati sì ad avere a che fare con il cibo - ognuno per quanto gli compete - però in un'ottica più attenta al sociale e con maggior riguardo verso elementi come tracciabilità, filiera corta, biodiversità, nonché cultura, diritti e piacere. Niente di nuovo, penserà qualcuno. Certamente si tratta di concetti già noti. Quello che c'è però di innovativo è lo strumento - il web - promosso a collettore tra gli addetti ai lavori da una parte, e gli interessati dall'altra. Infatti, il nuovo sito Il Circolo del Cibo si propone come piattaforma aperta per un dialogo e uno scambio tra persone che altrimenti non ne avrebbero l'opportunità concerta: da un lato, elencando tutti quei ristoranti - attualmente circa 30 - che dal nord al sud dell'Italia hanno aderito all'iniziativa e utilizzano nei loro menu - indicandoli chiaramente - anche prodotti provenienti dal commercio equo e solidale (la lista dei locali appare in un'apposita sezione del sito, mentre una vetrofania li segnala a chi ci passasse davanti per vaso); e dall'altro, appassionati e curiosi del mondo gastronomico, gourmet e consumatori sensibili a un concetto così vasto ma altrettanto concreto come "impatto ambientale, sociale e culturale del cibo", che vogliono dialogare, scambiare, imparare con il "resto del mondo" e le sue cucine e tradizioni. Insomma, questo sito virtuale e tutta la cascata di conseguenze che avrà nel concreto vuole essere un supporto e un veicolo per la filosofia del "mangiare solidale", senza per questo snobbare il gusto locale: perché, ad esempio, una pasta fredda preparata con penne di quinoa, o un'insalata di riso Thai rosso con verdure al vapore, o ancora un piatto di pesce in saor con spezie e uvette africane non tolgono niente alla nostra gastronomia. Al contrario, semmai l'arricchiscono. Per chi volesse saperne di più, è appena uscito un piccolo ma utile libro, Il cuoco leggero, di Marinella Correggia ed edito da Altraeconomia, che raccoglie informazioni, suggerimenti e ricette per ridurre la nostra impronta ecologica pur continuando a gustare i piaceri della tavola. La "rivoluzione" - e l'evoluzione - del cibo è forse una delle poche davvero fattibili, e senza bisogno di eserciti: bastano gli individui; i quali, nel loro insieme, formano poi la collettività, e quindi il mondo. Fiorenza
lunedì 3 maggio 2010
Il riscatto del risotto

giovedì 29 aprile 2010
Il colore giusto della maternità
Tra le tante, sconfortanti notizie che riempivano stamattina le pagine dei giornali, una in particolare continua a frullarmi in testa. Nonostante non sia certo tra le più allarmanti, importanti, coinvolgenti e sconvolgenti. La procura della Cassazione ha espresso parere negativo nei confronti di quelle coppie che chiedono di adottare solo figli di pelle bianca. Di per sé, è una notizia positiva, almeno così sembra. Se non fosse che porta con sé uno strascico di riflessioni inquietanti e di quesiti cui non è facile dare una risposta. Da un lato, vista la società in cui viviamo, è comprensibile che non tutti si sentano in grado di far fronte alle inevitabili difficoltà che comporta diventare mamma e papà di un piccolo così palesemente "diverso" dal cliché omologato. Ma dall'altro, mi chiedo, perché voler allora diventare genitori a tutti i costi? Qual è la molla che spinge due coniugi a stravolgere la propria esistenza, affrontando prima il lungo, faticoso e scomodo iter per poter accogliere in casa un bambino solo al mondo, e poi quello di essere per sempre genitori? Non ho una risposta, né pretendo che qualcuno me la dia. Però, mi rattrista e mi sconforta questa ennesima dimostrazione di quanto sia sempre più contorto e insano il nostro rapporto con la vita, le sue fasi, i suoi limiti - e soprattutto quelli di ognuno di noi; al punto da voler a tutti i costi provare come si sta nel ruolo di mamma e papà, però solo a determinate condizioni. È vero, anche con il concepimento naturale oramai è possibile "scegliere" - in casi estremi e particolari - se accettare o meno la diversità della creatura in divenire. Ciò nonostante, mi sembra meriti più comprensione e attenzione il dilemma e il dramma di una coppia che debba decidere se mettere o meno al mondo un figlio malato o in qualche modo "diversamente normale", rispetto a quello di due persone che sì, vorrebbero tanto crescere una creatura, e va bene anche se non l'hanno materialmente fatta loro, purché sia però almeno dello stesso colore o della medesima razza. Non so, forse è un bene che manifestino questo aut aut fin da subito, piuttosto che non essere poi in grado di accudire, amare ed educare un bambino così "difficile" perché con un altro colore di pelle. Ma non sono per niente sicura che queste persone abbiano le carte in regola per diventare genitori, in generale. Magari, mi viene da pensare, la natura è molto più lungimirante di noi, e quando non permette qualcosa - come ad esempio a un uomo e una donna di avere figli propri - ha le sue buone ragioni per farlo. Che, forse, sarebbe meglio imparare ad accettare e rispettare di più. Per la serenità, la prosperità e l'equilibrio di tutto e tutti. Fiorenza
martedì 27 aprile 2010
Cibo (anche) per l'anima
La prima volta che ho sentito parlare di René Redzepi - o meglio, che l'ho ascoltato parlare, dal palco milanese di Identità Golose - è stato agli inizi del 2007. E mi ha colpito subito, sia per la sua bella faccia pulita da ragazzino, sia per quello che raccontava della sua cucina al Noma di Copenhagen, ma soprattutto l'amore e il rispetto che dichiarava per i prodotti della sua terra, certo meno generosa da quel punto di vista della nostra. Una visita al suo locale danese, qualche mese dopo, ha confermato e fortificato questa prima, ottima impressione: "Il ragazzo ha le idee chiare, farà strada", ricordo che abbiamo commentato i miei colleghi e io in quella occasione. E infatti, di strada ne ha fatta tanta il giovane René, fino a conquistare ieri la prima posizione della classifica dei 50 migliori ristoranti, The S.Pellegrino World’s 50 Best Restaurants 2010. È soltanto una classifica, dirà qualcuno, che valore può avere? Sorvolando sulle polemiche che puntualmente sono spuntate come funghi, sì, è vero che è solo una classifica: una delle tante che affollano e governano la nostra quotidianità, a volte senza che neanche ce ne accorgiamo. Ma che però in fondo rispecchia il parere di 800 esperti di gastronomia e alta ristorazione di tutto il mondo, e quindi qualche riscontro con la realtà dovrà pur averlo, anche volendoci fare a tutti costi la tara del caso. E comunque, dà i brividi - per chi come me si occupa per mestiere proprio di alta ristorazione - leggere quell'elenco e scoprire che molti dei primi 50 classificati li conosco personalmente; perché li ho quanto meno intervistati, quando non addirittura ho chiacchierato, riso e scherzato con loro, oltre ovviamente ad avere gustato ciò che nasce prima nella loro mente e poi nelle loro cucine. Percependo anche quanta fatica, impegno, serietà e professionalità richieda un mestiere come il loro. E che emozione, lasciatemelo sottolineare, poter applaudire Massimo Bottura che con la sua Osteria Francescana è balzato al 6° posto della classifica. E potergli dire "Bravo", e soprattutto "Grazie, Massimo!". Perché in un momento così poco entusiasmante per la nostra nazione, dà forza e scalda il cuore vedere come non tutte le energie positive, le eccellenze e i talenti di questo Paese debbano per forza emigrare per poter emergere e farsi valere. E grazie anche a Massimiliano e Raffaele Alajmo, Davide Scabin, la famiglia Santini, Paolo Lopriore, tutti tra i primi 50 nomi della classifica: almeno per un giorno, mi avete permesso nuovamente di provare che cosa voglia dire sentirsi orgogliosa della propria terra e dei suoi tesori. Fiorenza
mercoledì 21 aprile 2010
Lunga vita alla pasta italiana

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domenica 18 aprile 2010
Piante e fiori in (e per) libertà
Che cosa si prova entrando in una galera? Beh, ovviamente dipende da come e perché ci si mette piede. A me finora è capitato due volte nella vita. La prima, tanti anni fa, è stato a Stoccarda, qualche mese dopo che nel carcere di Stammheim furono trovati morti alcuni terroristi tedeschi fondatori della Raf. All'epoca vivevo in Germania e mi era stato chiesto di accompagnare in veste di traduttrice una delegazione italiana composta da Dario Fo, Dacia Maraini, Carlo Lizzani e Franco Basaglia, arrivati a Soccarda appositamente per un sopralluogo nel supercarcere "maledetto". Di quell'episodio ricordo soprattutto il senso di impotenza nel varcare la soglia dell'edificio enorme, squadrato e grigio, costruito volutamente per incutere timore e rispetto: un luogo tanto gelido quanto lo l'atteggiamento e lo sguardo delle guardie che ci hanno scortato prima, durante e dopo quella visita. E ho ancora ben presente l'irrazionale ma vivida sensazione che magari durante il sopralluogo - autorizzato ma non certo ben visto - qualche cosa di imponderabile avrebbe potuto andare storto al punto da non permettermi più di uscire da quell'enorme loculo per esseri ancora viventi. Del tutto diversa invece l'esperienza che risale a ieri, nel carcere di Bollate, alle porte di Milano. Consiglio vivamente di leggere sul sito del carcere - vedi link qui sopra - quali sono le caratteristiche, i presupposti, le finalità e la progettualità di questa casa di reclusione. E poi anche, se possibile, di metterci piede fisicamente, per capire meglio e sentire sulla propria pelle. Magari come ho fatto io, per visitare la rigogliosa serra, i verdissimi vivai e il ricco roseto a cura della cooperativa Cascina Bollate e soprattutto di alcuni detenuti che dedicano le loro giornate a coltivare, trapiantare, accudire, amare piante e fiori. Passati i controlli di rito e le procedure di sicurezza - cellulari, macchine fotografiche, medicinali, chiavette usb e altro sono banditi; meglio lasciarli a casa o in auto - è come entrare in un vivaio qualunque. O meglio, a me sinceramente è sembrato addirittura più vegeto e vivace di tanti altri che ho visto negli anni. Al punto che quando, alzando per un attimo lo sguardo dalla terra e dalle piante, mi sono resa conto che stavo camminando a fianco di un muro alto, griglio e con tanto di filo spinato come ornamento, ho avuto un momento di smarrimento: perché nel frattempo mi ero dimenticata di essere all'interno di un carcere, accompagnata nella visita sia da Susanna Magistretti, che una paio di anni fa ha avuto l'idea, la forza e il coraggio di dar vita alla cooperativa, sia dai volontari che le danno un mano, sia dai reclusi che partecipano a questa iniziativa botanica. I quali, alla fine del tour durato un paio di ore abbondanti, hanno salutato con un semplice: "Ecco, noi dobbiamo fermarci qui. Grazie della visita", cui è stato davvero difficile rispondere senza essere banali, scontati o impacciati. Per la cronaca, le piante coltivate in libertà tra le mura del carcere sono in vendita sia nel negozio all'interno della stessa casa di reclusione, sia nei vari eventi e fiere cui la cooperativa partecipa, sia nel Giardino del Re, da Cargo, a Milano. Fiorenza
mercoledì 14 aprile 2010
Mosche in trappola

martedì 13 aprile 2010
Artigianale a chi?

Per qualcuno, parlare di gelato la mattina presto è come offrire salame piccante per colazione: roba da far accapponare la pelle e chiudere lo stomaco. Mi spiace, ma per me entrambi - il gelato e il piccante, in tutte le sue versioni - sono prelibatezze per tutte le ore. Ecco perché anche stamattina mi sono svegliata pensando e ripensando a un cartello che vedo negli ultimi giorni su un marciapiede che percorro spesso, e che recita tronfio e sicuro di sé "Gelato artigianale". È così grande quell'annunciatore in plastica - con tanto di mega cono della stessa materia finta e colorata - che non si può non vederlo, anche perché se ne sta posizionato nel bel mezzo del marciapiede. Ovviamente, essendo io una estimatrice del prodotto di cui sopra, alla seconda volta che sono quasi inciampata in questo ambasciatore del gusto, non ho potuto fare a meno di dare un'occhiata all'interno del negozio relativo. "Ma come, è un bar qualunque, anzi un'enoteca. Possibile che abbiano il gelato artigianale?", era il dubbio - e la speranza - che mi frullava per la mente. È bastato uno sguardo al misero banco frigo sponsorizzato da un noto marchio di gelato industriale e alla manciata di contenitori tristi e mezzi vuoti per capire che lì dentro di artigianale c'era al massimo il bancone in legno della mescita. Ma come è possibile, mi chiedo, voler spacciare a tutti i costi una cosa per un'altra? Niente da ridire sui coni, stecchi, vaschette ecc. prodotti in serie. Ma perché propagandare un prodotto per un'altro? Per fortuna, ho un buon fiuto per il gelato doc, e spesso mi basta solo guardarlo per capire se fa per me o no: non mi crea nessun problema entrare in una gelateria, dare un'occhiata ai cartellini, ai colori delle creme, all'ambiente in generale, e se non mi convincono andarmene con un "Mi spiace, ma è quello che cercavo". Dopo il pianto, ecco il sorriso: per tutti gli appassionati di coni e coppette da incorniciare - in senso metaforico, visto che il contenuto non lo consente - ecco due indirizzi forse meno noti di altri ma assolutamente da segnare in agenda. A Firenze, Carapina, regno dell'estroso Simone Bonini, che non perde occasione per testare, sperimentare, abbinare e fare cultura intorno al gelato di qualità e con frutta e prodotti di stagione. Da poco, per la gioia dei suoi fan in continuo aumento quasi fossero quelli virtuali della sua pagina di Facebook, Carapina si è clonato, aprendo oltre al negozio e laboratorio di Piazza Oberdan 2/r anche un secondo punto di attrazione, più centrale e a portata di passeggio, in via Lambertesca 18/r, a un tiro di coppetta da Ponte Vecchio. E a Milano, il Gelato Giusto, in via San Gregorio 17, zona Corso Buenos Aires, dove Vittoria e Alessandro - lei con un diploma in pasticceria francese ottenuto a Londra e una sana passione per il cioccolato, lui di professione fotografo con un debole per i primi piani su creme e sorbetti - accanto ai gusti più classici ma "tosti" propongono vere e proprie chicche come il Fior di basilico e il Fior di menta, entrambi preparati con le rispettive foglioline e non con sostanze "facenti le veci di". Per inciso, entrambi questi luoghi di culto di delizie algide non hanno grandi cartelloni "buttadentro"; al contrario, le loro insegne sono quanto di più sobrio e modesto ci sia. Però, una volta che ci siete entrati, fate fatica ad andarvene via. Fiorenza
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domenica 11 aprile 2010
Non è un paese per musicisti. Purtroppo
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